Stemma

STEMMA DI S. ECC. REV.MA MONS. ANTONIO STAGLIANÒ
VESCOVO DI NOTO

BLASONE: Di cielo, alla marina d’azzurro, sormontata a destra da un pellicano con la sua pietà, in maestà, d’oro e stillante tre gocce di sangue; e sostenente a sinistra una scala di tre pioli su di un ramoscello d’ulivo ricurvo, sormontata da una stella di sei punte, il tutto d’oro, la stella caricata di una H minuscola d’azzurro; al capo d’argento, caricato dei Cerchi Trinitari di Gioacchino da Fiore inframmezzanti le loro lettere, dei rispettivi colori, e con un rivolo di sangue movente dal cerchio mediano, attraversante sulla partizione,  ondeggiante in palo e riversato nel mare.
Lo scudo accollato ad una croce astile trifogliata d’oro, gemmata di cinque pezzi di rosso, e timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato, il tutto di verde.

MOTTO
MISERICORDIA ET VERITAS IN CARITATE

SPIEGAZIONE SIMBOLICO-TEOLOGICA
Lo stemma di Mons. Antonio Staglianò si propone come una interessante sintesi teologico-pastorale, oltre che come una originalissima composizione dal punto di vista araldico.
Il capo è d’argento. Nella sua chiara brillantezza esso è stato scelto come richiamo della Verità, cioè della Rivelazione che Dio offre di se stesso all’uomo. Centro di tutta la Rivelazione è l’amore trinitario di Dio, richiamato con grande immediatezza dai tre cerchi che si trovano ad illustrare la quarta delle 23 tavole dell’abate e teologo calabrese Gioacchino da Fiore (Celico, ca. 1130 – Pietrafitta, 1202) raccolte nel Liber Figurarum, opera notevole per ricchezza e simbolismo. Questa figura, detta dei Cerchi Trinitari, rappresenta il mistero della Trinità nel suo manifestarsi nella storia dell’umanità, suddivisa in tre “Età” o “Ere”. Il primo cerchio, di colore verde, rappresenta il Padre; il cerchio mediano, di colore azzurro, è rappresentativo del Figlio; mentre in colore rosso, sulla sinistra, si trova il cerchio dello Spirito Santo, la terza era di cui Gioacchino predicava prossimo l’avvento. L’Unità della Sostanza Divina si identifica nella porzione centrale di cerchio comune ai tre anelli, in forma di mandorla mistica. Le relazioni tra le persone divine sono simboleggiate, oltre che dal dinamismo dell’intersezione tra le figure, dal susseguirsi all’interno dei cerchi delle quattro lettere del divino Tetragramma, trascritto in lettere latine: IEUE. “I” indica il Padre, “U” il Figlio ed “E” lo Spirito Santo. Lo Spirito è indicato due volte perché procede sia dal Padre (IE) che dal Figlio (UE). Dante Alighieri segue e utilizza questa figura nel canto XXXIII del Paradiso per dire il mistero trinitario di Dio: «Nella profonda e chiara sussistenza/ dell’alto lume parvemi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza/ e l’un dall’altro come Iri da Iri/ parea riflesso, e ‘l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri». Il capo richiama così il piano del divino che si innalza sul livello della storia e dello spazio degli uomini, rimanendo a diretto contatto con esso. Dal Dio Uno e Trino viene la sapienza della vita per umanizzare il mondo. Quella sapienza che ha la sua traduzione esistenziale nella Misericordia, nella Verità e nella Carità, parole scelte per la composizione del motto. Tutto si compie “nella Carità”: Charitas è l’emblema spirituale del grande santo calabrese Francesco di Paola e il paradigma pastorale del Beato Antonio Rosmini.
Il campo principale è di cielo, termine caratteristico dell’araldica italiana che blasona le combinazioni di smalti tali da rendere il campo dello scudo nelle tinte proprie della naturalità del cielo. Il cielo limpido vuole essere segno di un mondo più umano perché illuminato e rinnovato dalla sapienza divina. Sul campo di cielo si stagliano una figura di carattere cristologico, e una composizione simbolico-raffigurativa di carattere mariologico.
La figura cristologica è il pellicano qui rappresentato – come quasi sempre avviene in araldica – con la sua pietà, vale a dire nel suo nido, nell’atto di squarciarsi il petto per nutrire con il proprio sangue i suoi piccoli, solitamente rappresentati in numero di tre.  Il caratteristico modo di nutrire i piccoli attraverso il cibo contenuto nella sacca membranosa al di sotto del becco e premuta dall’uccello contro il petto, è all’origine della leggenda per cui esso si squarcerebbe il petto per alimentare (o risuscitare) col proprio sangue la prole. I teologi medievali lo identificarono col Cristo che sulla croce versa il suo sangue per l’umanità. Tale identificazione è cantata anche da Dante che la utilizza nel definire l’Apostolo Giovanni: “colui che giacque sopra ’1 petto del nostro pellicano (Cristo), e questi fue di su la croce al grande officio eletto”.  Nel tardo Medioevo, non raramente la sacra figura fu oggetto di rappresentazioni artistiche, posta talora, nel consueto gesto di estrema donazione, al di sopra della Croce. Il simbolismo legato alla figura assunse presto connotazioni eucaristiche, come testimoniato dal noto inno eucaristico Adoro te devote, attribuito a San Tommaso d’Aquino: “Pie pellicane, Iesu Domine, me immundum munda tuo sanguine, cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere”. Per  questa valenza eucaristica la figura è stata scelta dal Vescovo. Così il pellicano richiama la fractio panis, il pane di Cristo “cuore della storia”, spezzato per i suoi fedeli. A questo si aggiunga che il pellicano è anche l’emblema di Antonio Rosmini (1797 – 1855) fondatore della Congregazione religiosa dell’Istituto della Carità: così il pellicano richiama i contenuti e la fatica della ricerca teologica del Vescovo, oltre che la sua formazione nella parrocchia di Isola Capo Rizzuto tra i rosminiani.
La stella è invece assunta a simbolo di Maria Immacolata. Questa figura vuole ricordare che “non si è cristiani se non si è mariani: il grembo di Maria gesta ancora figli di Dio, come per il Figlio nella carne”. Essa è caricata di una lettera H minuscola, che sta per humilitas, umiltà, la via obbligata per vivere una vita pienamente umana (la lettera è anche l’iniziale di humanitas: non a caso è rappresentata d’azzurro, il colore che richiama il secondo cerchio che indica il Figlio di Dio che ha assunto la natura umana, nonché il mare che pure simboleggia l’umanità). L’umiltà diventa così un luminoso programma di vita per il Vescovo: “l’essere immedesimati in Cristo, buon pastore che dona la vita per il suo gregge, sull’esempio di Maria, l’umile serva del Signore”. La lettera, in quanto iniziale di humilitas, richiama anche San Carlo Borromeo e quindi la formazione ambrosiana del titolare.
La stella sormonta una scala che richiama la patrona della Diocesi di Noto, Maria Santissima, Scala del Paradiso. I pioli in numero di tre sono in relazione al simbolismo trinitario del capo e simbolizzano le virtù teologali con le quali soltanto si ascende verso Dio: fede, speranza e carità. La “salita” (la subida) esprime anche la spiritualità carmelitana di S. Giovanni della Croce, cui il Vescovo è molto legato. Per questa salita, l’immacolatezza di Maria è destino e speranza: i cristiani sono stati predestinati ad essere e stare al cospetto di Dio “santi” e “immacolati” in Paradiso.
La scala è su di un ramoscello di ulivo che nel suo essere ricurvo richiama la luna, soventemente raffigurata ai piedi della Vergine, come anche appare nell’immagine della Madonna di Guadalupe, della quale il Presule, dal 1999 parroco a Le Castella, è particolarmente devoto, avendone introdotto la venerazione in quella parrocchia della Visitazione della Beata Vergine Maria. Inoltre l’ulivo è qui voluto per il suo universale simbolismo di pace e come espressione del “frutto buono” che l’umanità riesce a dare nell’obbedienza al comandamento di Dio, sull’esempio di Maria.
Il mare (qui rappresentato nella versione diminuita della metà, da blasonare come “marina”) richiama il mare che bagna la terra di origine e di esercizio del ministero sacerdotale del Vescovo, la Calabria (Isola Capo Rizzuto, Le Castella, Crotone) e ora anche la terra siciliana, con la sede episcopale di Noto. Dal punto di vista più squisitamente simbolico, il mare vuole indicare l’umanità che affronta i drammi del mondo in questo inizio di millennio, drammi da attraversare “con un impegno e una meta chiara: la pace, pacificazione dell’uomo in sé stesso, riappacificazione dell’uomo con il creato, riconciliazione dell’uomo con ogni uomo”. L’ulivo galleggia sul mare, quasi come un frutto che viene dall’umanità rinnovata da Cristo.
Il rivolo di sangue movente dal cerchio mediano nel capo amplifica l’idea del sacrificio redentore di Cristo (insita nella figura del pellicano) che con il suo sangue realizza la pace tra cielo e terra e fra tutti gli uomini, mentre visibilmente esprime il patto di alleanza tra Dio e l’uomo nel quale è dichiarato il tratto profondo di familiarità dei contraenti, “parenti prossimi”: Dio è Padre e gli uomini sono suoi figli, suoi familiari, nel sangue dell’alleanza di Cristo, figli nel Figlio (Cfr. Col 1,20; Ef 2,13).

 Don Antonio Pompili
(araldista, autore dello stemma)