5. PopTheology e Sanremo 2019. Una scintilla divina può fecondare le fragilità umane: ecco l’amore che si prende cura [seconda parte]

 La fragilità verifica l’amore. L’uomo è mendicante d’amore. Ecco perché è così grande: “l’uomo non è grande, se non perché è bisognoso”, diceva un grande filosofo e teologo dell’Ottocento, il prete Antonio Rosmini. D’altronde, dove finirebbe un cucciolo d’uomo appena nato, senza le cure della mamma e del papà. Sulla faccia della terra, non esiste al mondo “animale più fragile”, se non l’essere umano. La vita è, dunque, un dono che, passando nel tempo, cambia di continuo. Cresce, si espande, di arricchisce, ma anche, al contrario, si impoverisce, depaupera, svilisce, si mortifica. Il dono vive se dona l’amore e si perde se non si dona. Se dona, il dono porta gioia e comunica amore; diversamente, basta che non doni ed è un disastro per tutti, per la sofferenza che comporta, per il dolore inconsolabile che procura. Perciò, il dono della vita è anche un compito prezioso da realizzare. Come? Riempiendo di eternità ogni istante di tempo: “dai valore ad ogni singolo attimo”. Non c’è tempo da perdere per chi è impegnato a dare amore. I passatempi sono per chi vive in modo inautentico nel chiacchiericcio (=il blaterare infinito e fatuo nei social, per esempio) e non vive d’amore, perché non ha il senso della morte che potrebbe venire quando meno te l’aspetti adesso o della singolarità assoluta dei giorni (= “non esiste un giorno uguale ad un altro”). Chi ama vive ogni giorno “adesso come se fosse l’ultimo” e non si assesta sul superficiale, sul futile, ma comincia “a volare tra le montagne e il mare”, spazia con l’immaginazione, perché vuole farsi il giro del mondo ed essere tutto, in ogni cosa. Mai da soli, sempre con gli altri, per non cadere nella tentazione del narcisismo e amarsi, piuttosto che amare, godersi piuttosto che volere il piacere dell’altro. Il paese non crescerà se non insieme, in comunione come corde alla cetra, per una sinergia potente d’amore di una cordata per scalare le montagne o per perlustrare le meraviglie dei fondi marini nell’incanto di una scampagnata subacquea. Perciò, “abbracciami se avrò paura di cadere che siamo in equilibrio sulla parola insieme”. È dura, – “sarà pesante come sollevare il mondo” – ma, insieme, è possibile combattere ciascuno la propria battaglia e realizzare l’impresa più grande: “perdonare sé stesso”, raggiungere quell’umiltà che pacifica la vita di tutti. “Basta mettersi a fianco invece di stare al centro” e, vincere così l’egoismo narcisistico che trasforma il mondo in una grande specchiera nella quale contemplare sempre e solo il proprio volto. Si disvela allora un nuovo orizzonte di umana grandezza, forse inimmaginabile, ma il più vero, perché il più puro: se non si evade la croce che il mondo ci mette addosso – “attraversa il dolore, arrivaci fino in fondo” -, allora “ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte” e, andando oltre, sarà come volare in alto per raggiungere dimensioni divine, trascendenti, eppure disponibili agli umani. Ad esempio: una particolare pienezza di vita, nel “non giudicare chi sbaglia”, magari perché raggiungi la saggezza di chi sa guardare la trave del proprio occhio, piuttosto che la pagliuzza dell’occhio dell’altro; o, più intensamente, perdonare “chi ti ha ferito, abbracciandolo adesso”, perché il perdono serve a liberare il tuo cuore dal macigno funesto del rancore e dell’odio. “Un pugno di parole, con soli quattro accordi”, chiudendo “dolcemente gli occhi”, come chiede sin dall’inizio Cristicchi, è questa canzone piena di sapienza. Trasudano però esperienza, vissuto, perciò sono parole potenti che assomigliano più a “sassi di miniera” che a “perle di saggezza”. Non si tratta di qualcosa che si può apprendere leggendo libri o studiando filosofia, ma che si può acquisire solo scavando “a fondo a mani nude per una vita intera”. Là negli scantinati dell’anima, – dove solo attraverso il silenzio si può giungere, quando le vecchie parole si perdono nell’insignificanza della monotonia di chi li usa col prurito della lingua-, si apre un nuovo paese meraviglioso: quello di una umanità che saprà vivere l’amore, non perché l’avrà comprato con i soldi nei supermercati (l’amore, infatti, non si compra, cfr. Mahmood), non perché l’avrà prodotto in laboratorio attraverso lo sviluppo della tecnica (l’amore, infatti, non si fabbrica), ma solo perché l’avrà ricevuto dall’alto, come un dono invocato attraverso una preghiera. “E dovresti sapere che viene dall’alto, la voce che senti dentro di te; è una eco dai cieli, da terre remote che si fa polvere dentro di te; è un suono sublime che spacca il tuo cuore e che tutti chiamano, amore, amore, amore” (Jonàs Galt).