4. PopTheology e Sanremo 2019. Una scintilla divina può fecondare le fragilità umane: ecco l’amore che si prende cura (prima parte)

Cosa è musica vera che resta? Tutto passa, inesorabilmente. Solo l’amore resta. Perciò, a Sanremo 2019, la musica non è solo armonia e melodia, bellezza dei suoni e interpretazioni canore. Molto di più, la musica è “metafora viva” (P. Ricoeur) dell’oggetto/soggetto cantato. Sono tutte canzoni d’amore: Amore romantico, cinico, virtuale; Amore sognato, tradito, calpestato; Amore atteso, sperato, ricordato; Amore soggettivo, intergenerazionale, comunitario; Amore perduto e ritrovato, Amore paterno/materno, fraterno, solidale. Il tema è sempre l’amore. Ed è giusto così: non è proprio nell’amore che splende la bellezza dell’umano dell’uomo? Non è forse nella perdita dell’amore che la brutezza, invece, avanza e porta gli uomini e le donne di ogni tempo a perdersi, senza identità, memoria, come disorientati, spaesati? Motta, in Dov’è l’Italia, ha posto la stessa domanda a tutto il Bel paese: “amore mio mi sono perso anche io”. Se l’umanità degli italiani snatura verso l’ipocrisia egoistica dell’esclusione e dei respingimenti, del rifiuto e dello scarto, allora perde calore, si agghiaccia, è senza cuore, con “un cuore di pietra e non di carne”. Dov’è la pietas del carattere italiano, questa pasta umana che potrebbe diventare “modello educativo” di nuova umanità per tutta l’Europa? La realtà è ricondotta alla “rissa partitica”, dominata dalla aggressività e dal dileggio verbale dei social, per cui non c’è nulla di pre-politico da nominare, come amicizia, fraternità universale, integrazione, accoglienza nella legalità, sentimento umano, perché ogni manifestazione di idee è ostracizzata di “sinistra o di destra”, anche le canzoni di Sanremo. Così Motta deve giustificarsi, per non essere frainteso: la sua non è una canzone politica contro i governanti attuali, solo perché parla di persone che migrano e cercano salvezza nel territorio italiano. E’, invece, un appello alla coscienza dell’Italia, che scava nel profondo dell’anima: dove sei, dove ti trovi? Qual è la posizione italiana (umana, prima che politica) davanti alle tante storie di smarrimento di chi vive la disperazione di non giungere ad un porto sicuro: “Mi sono perso anch’io/ come quella volta a due passi dal mare /l’abbiamo vista arrivare /con l’aria stravolta di chi non ricorda cos’era l’amore /E non sa dove andare/ Da quella volta nessuno l’ha più vista”. E dov’è l’Italia? E cos’è l’amore? Una parola vuota di affezione e di immaginazione o, non piuttosto, “la scintilla divina che custodisci nel cuore”, come canta Simone Cristicchi, in Abbi cura di me, da lui stesso definita “una preghiera d’Amore universale”. La sua “prosa poetica” ha emozionato, perché ha attraversato le fibre più intime di chiunque abbia cercato – nell’ascolto- di fare silenzio interiore e misurare sé stesso all’altezza di questo Amore (universale). L’autore stesso ha ben spiegato: “nei versi della canzone, ricorre il tema millenario dell’accettazione, della fiducia, dell’abbandonarsi all’altro da sé, che sia esso un compagno, un padre, una madre, un figlio o Dio. Nelle mie intenzioni, questo brano vuole essere una preghiera d’Amore universale, una dichiarazione di fragilità, una disarmante richiesta d’aiuto”. Allora, “universale” non significa rarefatto, disincarnato, aleatorio, ideale (platonico), possibilmente contrapposto all’amore concreto, corporeo, incarnato, sociale e politico. Per essere universale, quest’Amore è “l’unica strada e l’unico motore”, ciò che “ti cambia dentro”, mentre il tempo ti trasforma fuori. Quest’Amore è il “Tu” di una relazione, a cui si può chiedere quasi in una invocazione orante
-“abbi cura di me, perché irrobustito dall’amore possa io aver cura di tutti – I care- diventando prossimo di ciascuno”; 
-“abbracciami se avrò paura di cadere e quando cadrai tu, rialzati per me almeno tre volte, nella pienezza di un amore che non si perderà mai”;
-“proteggi la mia felicità, perché già ce l’ho come dono e promessa e non la devo cercare, ma solo custodire e interpretare con la bellezza di un sorriso che partecipi serenità e non faccia paura, nemmeno a chi mi fa male, perché lo voglio perdonare”;
– “stammi vicino perché sono così fragile e mi trema la voce come se non mi sentissi un bambino in braccia a sua madre”; 
-“fino all’ultimo mio respiro, nell’ora della morte non mi abbandonare, Tu stringimi forte e non lasciarmi andare, abbi cura di me”.
Una preghiera così può essere rivolta – si creda o non si creda all’esistenza di Dio- a un “Tu” (con la T maiuscola) che può vivere in ogni “tu” (con la minuscola), ma anche, necessariamente, trascenderlo. Ecco perché universale, perché è immanente (dentro ogni cosa) e trascendente (nel tutto) oltre la totalità di ciò che esiste. È l’amore mistero nelle parole del libro della natura; mistero svelato nella grandezza delle piccole cose come l’universo nascosto in un chicco di grano o il vento che fa vibrare le foglie e -quasi orchestrando- produce nuove sinfonie. È soprattutto vero miracolo della vita, unico, nel senso di “singolare”, di una evidenza luminosa: che anche gli occhi più increduli possono riconoscere, perché è lì, quale spettacolo del firmamento, nel fiore sbocciato tra l’asfalto, che mi spinge a pensare alla speranza di rinascita della Ginestra di Leopardi. Chissà perché! (segue)