Anche noi con gli immigrati per affrancarci dall’individualismo e generare fraternità

 Il 14 marzo si celebra nella diocesi di Noto la memoria del Beato Antonio Etiope, uno schiavo del Cinquecento vissuto tra Avola e Noto che, accolto e affrancato dai suoi “padroni”, ha testimoniato con radicalità il Vangelo unendo preghiera e carità ed è morto in fama di santità, tanto da essere venerato come beato appena quarant’anni dopo la sua morte. Il suo culto è molto vivo in Brasile, mentre da noi è stato riscoperto grazie alle ricerche di Mons. Guastella nel 1992. Lo stesso lo ha proposto come patrono della Caritas diocesana, mentre, con un Convegno e le sollecitazioni di Mons. Nicolosi per una devozione legata alla vita, se ne attualizzava il messaggio rapportando alla crescente immigrazione.

Il giovane schiavo arriva dalla Libia, dalla Cirenaica, e viene definito Etiope: si evoca subito una terra difficile ed una geografia confusa. Una terra di schiavitù, la terra oggi dei “respingimenti”. La geografia confusa invece è indicativa di una mentalità che non accoglie le differenze, la ricchezza dei popoli. Ricordando il Beato dobbiamo allora anzitutto recuperare il senso della comune famiglia umana, con le sue ricchezze e con l’impegno a “non essere sono vicini ma fratelli” (Caritas in veritate), che si accolgono comunque e si riconoscono nelle differenze grazie alla riscoperta della paternità di Dio. Paternità di Dio che concretamente, fin dall’inizio nel gemellaggio con la Chiesa di Butembo-Beni, ci è stata consegnata in questi termini: “Quando gli europei venivano per dominarci non ci potevamo chiamare fratelli. E nemmeno quando venivano per aiutarci. Solo ora che venite a visitarci, possiamo chiamare Dio Padre e noi fratelli”. Accogliere e visitare sono le due porte d’ingresso nella relazione con la varietà e ricchezza dell’unica famiglia umana!
Questo povero schiavo, catturato dai pirati, vene venduto. E però si realizza una relazione da parte del massaro Jandanula e poi dei nipoti Giamblundo, una relazione che permette loro di coglierne il carattere mite, e forse anche di conservarlo tale rispetto ai tanti che si abbrutiscono per gli incontri sbagliati. C’è anche la delicatezza, nel massaro Jandanula, di convertirlo al cristianesimo, mettendo insieme il desiderio di trasmettere la vera fede ma anche di farlo senza forzature ben sapendo che il primo protagonista resta Dio. C’è quindi l’affrancamento! Non sulla base di una legge, ma di una logica evangelica. Affermano i Giamblundo, nipoti di Jandanula: “non può essere schiavo chi ha Dio per amico!” Dovremo, nell’incontro con popoli diversi, avviare un dialogo anche religioso che passa attraverso possibili messaggi ma soprattutto attraverso cammini di liberazione e leggi che riconoscono il diritto di cittadinanza anche gli immigrati (soprattuttto se nati in Italia o nelle amministrative).
Si intensifica, dopo l’affrancamento, la testimonianza del beato Antonio, tra Vangelo e poveri, con un’attenzione ai detenuti che nella nostra Chiesa si sta rinnovando con esperienze significative come “Coltivare la libertà” o “Il mandorlo che fiorisce”, esperienze di reinserimento attraverso l’agricoltura, o come l’accoglienza dei rifugiati e la scuola di italiano tese a ripercorrere “i sentieri di Isaia”, come dice un coordinamento di iniziative ma anche una newsletter che abbiamo iniziato a pubblicare come Caritas diocesana. Soprattutto – in questo cristianesimo che vuole unire una preghiera dall’intensità mistica, la povertà francescana, la carità coraggiosa – il beato Antonio diventa patrono della Caritas diocesana nel suo impegno ad animare comunità capaci di testimoniare una vita cristiana autentica tesa tra Vangelo e storia, una carità fatta di relazioni e di profezia.
In tempo di quaresima, dobbiamo accogliere questa testimonianza per dare densità evangelica, ecclesiale e storica alla nostra conversione. Anche noi dobbiamo con il Beato affrancarci da schiavitù che ci rendono “schiavi contenti” (nel seguire acriticamente la corsa al benessere individualistico ma così continuare ad opprimere il Sud del mondo) e decidere di uscire dalla crisi insieme agli immigrati, recuperando per tutti e con tutti autenticità di vita, fraternità nelle relazioni, giustizia e pace al cuore della città.