Con un sentito ringraziamento espresso da Don Ignazio Petriglieri, Vicario Foraneo, a nome della comunità ecclesiale cittadina, si è conclusa, giovedì 29 giugno 2017, la Visita pastorale nella città di Noto. Interpretando i sentimenti di tutti i fedeli , Don Ignazio ha racchiuso in tre punti i motivi che ispirano i sentimenti di gratitudine al Vescovo da parte della comunità che ha vissuto la Visita: la Presenza, la Parola, la Sacramentalità. La presenza del Vescovo, ha spiegato il Vicario foraneo, che si è concretizzata con la visita del Pastore nei vari spazi ove vive l’uomo – il tempio, le case dove spesso c’è la presenza di ammalati, le sedi dei vari organismi ecclesiali e via dicendo – ha rappresentato il segno di una Chiesa dal volto umano. La Parola, ha continuato, ha costituito il segno visibile della presenza di Gesù tra noi e lungo le nostre strade ( “ Chi ascolta voi, ascolta me”, Lc 10, 13-16). La sacramentalità, ha concluso Don Ignazio, richiamandosi al titolo di un’opera del teologo Schillebeeks “ Cristo, sacramento dell’incontro con Dio”, che vede nel Pastore il sacramento di Cristo. Dice, infatti, Schillebeeks, “ Il dono della grazia si rende presente in forma visibile e agisce in una presenza visibile”. La conclusione della Visita Pastorale a Noto ha fornito al Vescovo Antonio l’occasione per sviluppare, nell’omelia, una vera e propria catechesi intorno alla pastorale parrocchiale. “ Se vogliamo dare corpo alla nostra Fede, ha detto, dobbiamo svuotarla di tutti quei gesti religiosi che sono tipici del cattolicesimo convenzionale, per riempirli di tutti quei segni d’amore corporali che caratterizzano, invece, il cattolicesimo cristiano”. Se questa è la meta che vogliamo prefiggerci, ha chiarito, dobbiamo impegnarci tutti, Vescovo, parroci, diaconi, religiosi e religiose, fedeli a rivedere il nostro modo di essere Chiesa di Cristo”. E rivolgendosi, in particolare, ai presbiteri, ha chiesto: “ Se nelle nostre comunità ci sono rapporti freddi, glaciali, di chi è la responsabilità? Eppure la roccia su cui si fonda la Chiesa è l’amore che sfocia fino al martirio ( l’esempio di Don Puglisi, su tutti)”. Prendendo, ancora, a spunto la domanda di Gesù nel Vangelo appena proclamato – “ la gente chi dice che io sia” – il Vescovo ha chiarito che “ la risposta non la dai perché hai studiato il catechismo; la risposta dipende dagli occhi che hai per guardare il fratello. Non sono io, allora, che agisco, ma è il Cristo che vive in me”. Anche perché le risposte che attende Gesù non possono consistere in un “ secondo me”, per quanto la nostra opinione sia rispettabile. Ciò che vale per San Pietro, ha detto Mons. Staglianò – “ Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” – deve valere anche per noi. E allora, cosa debbono essere le nostre comunità, si è chiesto, in conclusione, il Vescovo? “ Le comunità di persone, ha affermato, sono un cantiere, non un palazzo già rifinito” . E nel cantiere, ha proseguito, “ ci vanno gli operai, muratori, carpentieri e manovali che si sbracciano e portano i carichi più pesanti”. O, se preferiamo, ha aggiunto, consideriamo le parrocchie come la Vigna del Signore, dove “ il lavoro più faticoso non è tanto quello di gettare il seme, ma quello di dissodare il terreno” . Nel terreno delle nostre città cosa c’è, si è chiesto Mons. Staglianò? “ Spetta alla chiesa intera, ha concluso, scavare in fondo per fare emergere i vari bisogni e intervenire di conseguenza. Anche distribuendo i compiti fra le varie comunità”. Ben sapendo che la Vigna del Signore non è nostra e che in essa il seme più importante è la carità. “ Usciamo, quindi, dal tempio e andiamo nel campo”.
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