Il corpo risorto del Signore. Lettera del Vescovo alla diocesi per il Corpus Domini

Il Corpo risorto del Signore
 
Lettera al popolo di Dio perché “renda ragione della speranza”, dischiusa dalla fede cristiana nella risurrezione corporea di Gesù Cristo, e ne viva le “conseguenze pratiche” di comunione e di fraternità, di profezia e solidarietà, nella propria esistenza, oltre le eresie neognostiche e neopelagiane dell’odierno cattolicesimo convenzionale
 

 
 
 
Carissime sorelle e fratelli,

tutti voi fedeli laici, diaconi e presbiteri, religiose e religiose, salute e pace nella gioia del Signore risorto. Il dono del risorto è lo Spirito santo. Solo grazie a “questo” Spirito, possiamo con certezza credente guardare a Gesù e riconoscerlo nella sua verità di Figlio di Dio nella carne umana, per essere via che ci porta al Padre, fonte ingenerata della Vita.
 
Amore non è mai senza corpo
 
Non è un caso che “dopo la solennità della Trinità”, la Chiesa cattolica chieda di vivere quella del Corpus Domini. Il corpo risorto del Signore Gesù è, infatti, la carne vera del Dio agape, eterna comunione d’amore, del Padre del Figlio che dona lo Spirito, la persona dell’amore o l’amore in persona. Il legame stretto tra queste due solennità liturgiche esprime con assoluta chiarezza la “verità essenziale” del cristianesimo: Amore non è mai senza corpo, come in terra così in cielo.
Abitare questa verità, è l’unica strada per vincere la tentazione dell’eresia odierna del cattolicesimo convenzionale che punta a “virtualizzare” l’esperienza cristiana. Rifacendosi a Placuit Deo, Papa Francesco ha insistito – in Gaudete et exultate- sull’urgenza di stare molto attenti, nel cammino di santità, alle sempre risorgenti eresie dello gnosticismo e del pelagianesimo. Si dà il caso che – da versanti diversi- queste due eresie snaturano e “tagliano” (da cui viene il termine “eresia”) la verità cristiana dell’Incarnazione e del Corpo risorto del Signore.
 
Spiritualità senza carne
 
La prima (lo gnosticismo), disincarna il Verbo e propone una spiritualità evanescente, “senza carne”, appunto. Magari rifacendosi: – a un amore nell’idee che non si realizzano mai; – a un amore di buoni propositi che restano sempre come le grandi visioni di sogni notturni; – a un amore che, voluto “spirituale”, pretende di restare platonico, senza mai sfiorare i corpi della gente e le loro povertà materiali; – a un amore dell’affermazione con la lingua del dogma del comandamento dell’amore che, però, non prende mai le forme pratiche delle opere di misericordia corporale e spirituale.
Ai cattolici convenzionali – tra i quali (nessuno si disturbi troppo ad amareggiarsi per il giudizio) mi metto comodamente pure io, collocando anche tutti quelli che hanno consapevolezza del dovere cristiano di convertirsi, giorno dopo giorno, facendo penitenza e chiedendo a Dio perdono per l’inadeguatezza della propria testimonianza di fede, in tutta umiltà e senza ubriacature integraliste), sarà necessario rammentare che l’amore da praticare è quello del Corpo del Signore, cioè quell’istante spazio-temporale del “come io ho amato voi”. Non pare per nulla che Gesù ci abbia amato in lezioni sull’amore, con le poesie sull’amore, in pii sentimenti d’amore. Lo ha fatto invece nel suo corpo, cioè in sé stesso, in quanto “corpo visibile della Trinità invisibile”: “non hai voluto sacrifici di montoni, di tori e di agnelli, Tu o Padre mi hai dato un corpo, ecco io vengo per fare la tua volontà”. Gesù, facendo la volontà del Padre, la insegna, e la comunica come qualcosa che va obbedita nell’amore vero, nel proprio corpo, reso così “sacrificio di soave odore”, cioè del culto tipico degli adoratori che il Padre cerca, “adoratori in spirito e verità”.
 
Corpo senza la grazia dello Spirito
 
La seconda (il pelagianesimo) de-spiritualizza il corpo e propone una “spiritualità dell’autosalvezza”. Si manifesta in una certa sicurezza del salvarsi da solo, senza bisogno dell’aiuto di altri, in un cammino di vita che punta solo sulle proprie forze. Cristo è solo un modello (una idea regolativa), ma non c’è necessità della sua grazia per animare la libertà dell’uomo a fare il bene: si ritiene di poter agire bene da soli, quasi fossimo dotati di una “santità naturale” che il peccato originale non ha per nulla scalfito. Si vive, pertanto, nell’euforia dell’auto/sufficienza, dell’auto/nomia, dell’auto/referenzialità in una visione dell’uomo prometeico che sa disporre di sé. Insomma, alla spiritualità del “solo Dio basta”, si oppone la spiritualità del “basto io a me stesso”. È un atteggiamento che si ritrova in quanti decidono di vivere “senza Dio”, perché non ne hanno bisogno. Questi nostri fratelli intendono – per tanti motivi- vivere senza fede, trovando nella bussola della loro ragione l’aiuto esclusivo per una etica della responsabilità propria, autonoma, secondo l’epitaffio di I. Kant- che ne fu maestro- “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Diversamente, il credente crede in Dio e non può farne a meno. Prega perché Dio lo assista nelle sue fatiche quotidiane e nelle tentazioni gli stia vicino. È consapevole che non può far nulla senza la grazia di Dio. Il cristiano cattolico sa della propria fragilità e delle potenze del male che circolano dappertutto – “come leone ruggente” – per divorarlo. E, allora, perché l’eresia neopelagiana resta – secondo Gaudete et exultate- un nemico invisibile e sottile da cui il cattolico si deve guardare? La riposta è semplice: se il Corpo risorto del Signore non è accolto e vissuto nella sua verità, allora anche l’esperienza religiosa, “apparentemente” cristiana, non lo è affatto, è una maschera di Dio e non rivela il suo vero volto. Si proclama con certezza granitica la verità dogmatica sull’amore cristiano (=ortodossi nella dottrina, in teoria), si vive nell’eresia pelagiana di un attivismo senza Spirito (=eterodossi nell’azione religiosa, in pratica).
 
Eresie nella pratica religiosa
 
I cattolici convenzionali sanno bene che San Paolo non mente quando afferma: si potrebbe donare tutti i propri beni ai poveri -quale più alta forma di attivismo cristiano come servizio agli immiseriti, ai diseredati? – e “non avere la carità”. Se non c’è fede senza le opere, ci possono essere tantissime opere senza fede, nelle quali all’opera non è Dio, ma il proprio io, i propri interessi, la coltivazione della propria immagine pubblica, il proprio carrierismo. “Far strada ai poveri, senza farsi strada” (P. Mazzolari) è roba da santi, cioè da cristiani cattolici autentici. Per non dire che da qui derivano tutte quelle forme dell’umiltà orgogliosa che, oltre ogni apparenza, è davvero la quintessenza della superbia.
Su questa via, si arriva a non riconoscere “Dio all’opera” di tanti fratelli, i quali – pur dentro limiti e peccati o anche miserie- lavorano comunque indefessamente nella missione della Chiesa, per testimoniare le alte esigenze di amore del Vangelo e per praticare la sua giustizia.
Proprio questa giustizia non si può più misurare con il metro mondano del successo o della “ricompensa immediata” per il lavoro svolto nella sua vigna del Signore. “Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra”, oppure, “dopo aver fatto tutto quello che dovevate, consideratevi servi inutili” o, ancora, “vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostre celeste”: sono espressioni che smascherano l’esaltazione autocelebrante di sé, per le pur belle e grandi opere, nelle comunità cristiane e fuori di esse. Fa parte dell’istinto della autocelebrazione di sé, quella tendenza spontanea a giudicare gli altri di narcisismo e di protagonismo e di esibizionismo, se li vedi far ombra all’immagine (propria, soggettiva) d’essere i migliori, i più bravi. Così, non riconoscendo la trave che sta nel nostro occhio, giudichiamo implacabilmente la pagliuzza dell’occhio dell’altro. E perché tutto questo potrebbe/ dovrebbe essere eresia in atto, in pratica? Perché, spesso, non è più la debolezza di un momento (di cui si può chiedere sempre perdono a Dio), ma diventa “organizzazione sistematica” di gruppi settari, coalizzati a “eliminare” il giusto (pur peccatore), a toglierlo di mezzo, perché la sua opera e la sua vita è un rimprovero alle nostre codarde comodità o ai nostri insuccessi per incapacità.
Ecco dove matura l’eresia contro il Corpo risorto del Signore: nell’estenuazione della sacramentalità, fino alla perdita totale della sua percezione. Così, il vescovo non è percepito come il bel pastore che ci è stato dato per servire l’amore di Gesù nella trasmissione apostolica, ma appare più come “il successore dei faraoni”; il prete non è più percepito come il padre di una comunità che guida il popolo sulle strade concrete dell’amicizia e del perdono, ma come un burocrate del sacro, mosso da interessi altri; il cristiano non è percepito come un tempio di Dio, il cui corpo è presenza dello Spirito santo che lo fa vivere di carità, ma solo come un “laico” bigotto (in quanto fedele praticante) o pensante (in quanto ha rinunciato ad andare in chiesa, per esigenze razionali, cioè perché ha capito che non serve a niente). Insomma, il corpo del vescovo, del prete o del cristiano non è percepito come sacramentum, come segno efficace dell’agire e dell’opera di un Altro, del Dio buono e giusto, del Padre di Gesù. Pertanto, anche nella Chiesa scattano gli impulsi oscuri dell’invidia e della gelosia, sempre riferibili – come insegnano gli scienziati della psicoanalisi- alla fascinazione che frustra e fa venire rabbia: l’odio per ciò che invece si ammira negli altri.
Questo distrugge il Corpo risorto del Signore che è la Chiesa, comunione di amore, nata dal sangue di Cristo Crocifisso per noi. Impedisce di guardare al bene dell’altro come dono del Signore, carisma dello Spirito, fatto a tutta la Chiesa. Le relazioni ecclesiali sono incatenate dalla dannazione della rissa (tipica della politica malata), fino a giungere all’odio sociale dei social network, senza nessun ricordo dell’insegnamento di Gesù sul perdono, sulla misericordia, sulla riconciliazione.
 
La verità del Corpo risorto del Signore
 
Dalle “eresie in pratica” possiamo essere salvati solo grazie alla verità luminosa del Corpo risorto del Signore. Nell’Eucarestia ascoltiamo il linguaggio dell’amore vero, ne condividiamo empaticamente il sapore di liberazione dall’egotismo e dall’autoreferenzialità, imparando a donarci nell’amore gli uni gli altri, “come” Gesù ha fatto: “ecco il mio corpo (non dice: ecco le mie idee o i miei pensieri) lo dono a te; ecco il mio sangue sparso per redimere il mondo”. E tutto questo nella forma della grazia (=gratis data), cioè nella gratuità di una donazione che vuole pensare solo all’altro e mai a sé stesso. Unilateralmente (= a senso unico) e incondizionatamente (=non ha le misure di un contratto di reciprocità), sono avverbi nei quali vengono custoditi i tratti belli dell’amore eucaristico: l’esclusiva parola del dono di sé, di un amore sconfinato, che diventa perdono per tutti, amore vero dato agli amici, lo stesso amore dato ai nemici. Solo Dio è capace di questa opera e, nella storia, anche i cristiani: i cristiani (in faccia a ogni pelagianesimo) sono pieni di Dio e amano come Dio, perché Dio li in-abita, potenza di amore per ogni opera buona realizzata per il bene e il riscatto di altri.
Nel cibarsi del Corpo di Cristo, ogni domenica, i cattolici cristiani assumono le stesse energie di amore dell’Eucarestia che adorano nel sacramento. E questo accade davvero, nella realtà della loro vita e non nelle illusioni dolci della religione, come invece sosteneva Leopardi. Queste energie d’amore sono destinate dal Signore agli altri, perché giungano nelle periferie esistenziali (Papa Francesco), nei drammi quotidiani di tutti, animando la speranza della risurrezione dei corpi nel paradiso della pace e della gioia di Dio.
 
Dall’Eucarestia celebrata all’Eucarestia per il mondo
 
Carissimi, volevo scrivere di meno e, ora, mentre concludo, sento impellente il bisogno di continuare a scrivere. Rimando però a quello che – da un decennio- vi ho sempre ripetuto in ogni mio scritto pastorale. Per non “virtualizzare” i sacramenti (in particolare l’eucarestia) non basta partecipare alla celebrazione del sacramento, che resta comunque “fonte e culmine della vita cristiana”. Se resta solo “fonte” e non culmina nell’opera bella di una umanità rinnovata, ecco che possiamo partecipare all’Eucarestia domenicale (fonte di vita) e poi non incarnare questo amore in opere concrete di fattiva carità. Così, l’Eucarestia non è più culmine ed è sola “virtualità rituale”, ma non realtà di salvezza. Del resto, solo l’Eucarestia vissuta per le strade degli uomini verifica, nella nostra esistenza, la qualità cristiana della fede. La preghiera non sarà mai un gioco di parole o di perle di vetro. E non si incorrerà in quella eresia pratica di cui disse il profeta: “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”.
La fede cristiana è “questione di cuore”. Riguarda il cuore di pietra che – per la potenza dello Spirito- diventa un cuore di carne, la carne stessa del cuore di Gesù e di Maria, a cui affido le vostre vite e la vita della nostra amata Chiesa diocesana di Noto. Vi abbraccio tutti, con ogni benedizione nel Signore,
 
 
+ Antonio Staglianò
   Vescovo di Noto
 
 
(IN ALLEGATO, IN FONDO ALLA PAGINA, IL DOCUMENTO ORIGINALE CON LA LETTERA DEL VESCOVO)