Il perdono dell’imperdonabile. La memoria sovversiva dell’Olocausto

Perdono! Ancora non si sa se la parola – perdono- indica il tema di ciò che si scriverà o, piuttosto, non sia la richiesta d’essere perdonati perché si osa scrivere sul “perdono nella memoria dell’Olocausto”. La Shoah è imperdonabile. Non si può perdonare l’orrore, anzi non si deve. Ogni etica umana lo negherebbe. Nel caso, oggi, chi dovrebbe chiedere perdono e chi lo potrebbe dare? Difficile indentificare i soggetti in gioco. E, poi, non è giusto perdonare, ciò che non si può/deve perdonare: “il perdono è morto nei campi di sterminio” (Jankélévitch). Anche scriverne è imperdonabile. Scrivere del perdono rischia d’essere un “atto di barbarie”, com’ è per Th. V. Adorno «scrivere una poesia dopo Auschwitz». L’aforisma dell’autore di Dialettica Negativa è famoso. È un giudizio implacabile sull’ineludibile incapacità del pensiero – della cultura, dell’arte (qui è segnalato il genere letterario della poesia), della scrittura in genere- di misurarsi con lo sterminio: «tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura». L’inconfutabile fallimento della cultura è espressione dell’imperdonabile, anche perché l’Olocausto è inespiabile. Imperdonabile e inespiabile sono le dimensioni forti di un muro di cinta impenetrabile, quello del silenzio, della necessità di tacere, per la totale insignificanza della terrificante banalità del male assoluto (H. Arendt). È ingiusto che questo silenzio giunga a parole, a racconto, perché nessun discorso (in prosa o poesia) è all’altezza dell’abissale insignificanza di tale evento. Ogni scrittura allora è una possibile profanazione: è spergiuro, un mancare a una promessa; è colpa, è infedeltà.

Eppure, il genocidio ebraico è un passato che non passa e non deve passare: non può essere, imbalsamato, seppellito, obliato. È giusto che se ne parli, che si scopra un linguaggio (certo, comunque inadeguato) per raccontarlo: nella narrazione, diventi “memoria sovversiva” (J. B. Metz), per costruire una coscienza critica, capace di sentimenti di profonda indignazione e repulsione della disumanità, in qualunque forma si presenti, sulla scena dell’assurdo della storia. È, allora, giusto attingere a quel vissuto orrendo (penso ai diari di Anna Frank o, soprattutto, a quello di Etty Hillesum) per attivare la memoria sovversiva, quale ammonimento per le generazioni future a non commettere mai più nefandezze, dove il male si incarna e il maligno assuma forme terrificanti, disumane, barbare, an-umane. Ne’ Il silenzio di Abram, Marcello Kalowski, racconta del padre sopravvissuto al campo di Auschwitz e dona voce al suo silenzio muto, conseguenza dell’abbrutimento del ghetto. È giusto narrare l’inenarrabile, anche a costo della sua banalizzazione commerciale cui spinge lo spettacolo che vuole trarre profitto. Specialmente oggi, quando nello scorrere dei tempi e delle stagioni, i testimoni diretti scompaiono del tutto. Nella fine dell’era del testimone, se resta giusto custodire nel silenzio il tempo maledetto del genocidio ebraico, sarebbe anche ingiusto che ne perdessimo la memoria. Siamo costretti ad abitare l’aporia di una “giustizia ingiusta”: per essere giusti (raccontare e non dimenticare) si è ingiusti (rompere il silenzio che è giusto mantenere).

Narrare l’inenarrabile è l’altra faccia del perdonare l’imperdonabile. Tuttavia, “il perdono, se ce n’è, non perdona che l’imperdonabile” (J. Derridà). Il perdono non sarebbe davvero tale se cadesse su ciò che è facilmente scusabile, perdonabile. È l’essenza del perdono che possa essere dato anche se non viene domandato, e si diriga a ciò che non va perdonato, che è ingiusto perdonare: perché vive del dono-per l’altro, (di cui si è sempre debitore); un dono-per che è, alla radice, libero da ogni calcolo, da ogni logica di restituzione simbolica (persino di riscatto o di redenzione) nella quale il perdono si annullerebbe. Perciò l’imperdonabile, proprio mentre nega d’essere perdonato, in realtà invoca e rende possibile il perdono. La memoria deve narrare allora tutta la verità e, nel racconto, mostrare in tutta evidenza i tratti mostruosi dell’imperdonabile e dell’inespiabile. Nel farlo, la memoria dell’Olocausto è sovversiva. Soprattutto perché “sovverte” il vocabolario disponibile per la sua scrittura, per la grammatica e sintassi del discorso. Questa memoria è ben più di un ricordo. Ha le caratteristiche di un memoriale che rende presenti fatti del passato, quasi vissuti oggi. Allora la sovversione riguarda anche l’umanità e il nostro dover essere, per restare umani e abitare le aporie del perdonare l’imperdonabile senza dissolverle.

È la richiesta di un’etica iperbolica, un’etica oltre l’etica, in un circolo virtuoso (vizioso solo a menti deboli e ciniche), dove l’immedesimazione (Einfuehlung) è decisiva: perdonare l’imperdonabile è imperdonabile, ma per questo, solo se è imperdonabile, apre davvero al perdono autentico (non finto, di facciata, illusorio, equivoco). Ciò che è accaduto all’altro -sia ai carnefici, super uomini nazisti, bestie feroci che hanno organizzato la “soluzione definitiva di un intero popolo” e sia agli ebrei scafati nella loro umanità e ridotte a bestie- può essere colto con un atto di empatia, attraverso il quale, uscendo dalla propria individualità e singolarità, si diventa “una sola cosa” con l’altro. Procedimento che ha del miracoloso, ma è possibile, ed è inevitabile, per restare umani e custodire la propria umanità dall’annientamento del male.

Il perdono allora risorge nei/ dai campi di sterminio, dove l’imperdonabile e l’inespiabile è accaduto e come tale deve restare. Risorge il perdono dentro e grazie a “logiche altre”, “logiche oltre le logiche” ordinarie, che dischiudono, attraverso il paradosso, gli orizzonti del mistero: Etty Hillesum non vuole odiare, per non incrementare l’odio; perdona e vuole amare i suoi carnefici per bonificare con l’amore il fiume velenoso e mortifero del male. Raggiunge, per questa via, la mistica di Cristo sulla Croce, dove il perdono solidarizza in particolare con gli innocenti e soprattutto espia per i colpevoli: qui l’imperdonabile è perdonato, l’inespiabile è espiato, per tutti e “una volta per sempre”. Dentro la vita degli uomini, e da uomo, Gesù di Nazareth ha rotto in sé stesso il muro separante dell’inimicizia, compiendo nella sua umanità (cioè la vera umanità di tutti gli esseri umani) l’opera che soltanto Dio può fare: perdonare l’imperdonabile e consentire agli uomini di ritornare a sperare nella propria umanità, “che il deserto può fiorire, se d’amor posso morire” (Jonàs Galt). Per questo, nei campi di sterminio, risorge il perdono e anche Dio (morto per il suo “colpevole silenzio”). Attraverso l’ingiusta giustizia del Crocifisso che muore per amore per tutti, anche dei colpevoli, può ripartire la teodicea (e anche la metafisica), perché quel silenzio muto dell’Innocente sulla croce lancia nella storia la parola più eloquente e inaudita: Dio è solo e sempre amore, così come lo vedi sulla croce, mentre espia l’inespiabile e perdona l’imperdonabile. Questo Dio empatico è la “memoria sovversiva” dell’Olocausto.
 
 
Antonio Staglianò, vescovo di Noto