La carità è anzitutto relazione, stile, discernimento

La chiamata a prima vista è smisurata: manifestare l’amore stesso di Dio! Ma è anche quella propria della Chiesa. Per come appare nei testi delle Scritture, come pure nei doumenti del Concilio, nelle decisioni del Sinodo, nella lettera pastorale del Vescovo Mons. Staglianò sulla misericordia. Ecco perché, quando si parla di carità, la prima preoccupazione non è “organizzativa” ma pedagogica: non “cosa fare?”, ma “come crescere e aiutare tutta la comunità a crescere in un amore evangelico?”. Per questo, dopo il Concilio Paolo VI chiuse la Pontificia Opera Assistenza e volle la Caritas “con funzione pedagogica” (e Benedetto XVI lo ha ribadito di recente per i quarant’anni della Caritas). Nella relazione del direttore della Caritas Maurilio Assenza (si allega) e nel confronto che ne è seguito è stata allora focalizzata anzitutto la necessità di una capillare animazione alla carità grazia alle Caritas parrocchiali. Per questo è importante che esse siano costituite da animatori capaci di aiutare la comunità a rapportarsi al territorio e a rispondervi in modo evangelico. Quindi ci saranno anche i centri di aiuto per una prima assistenza, ma questa è solo un momento di un impegno più ampio, come pure in ogni vicariato ci sono i Centri di ascolto che rappresentano un “secondo livello” del’aiuto caratterizzato dall’accompagnamento e dall’orientamento. Determinanti diventano le persone: da qui l’invito  sceglierle su base vocazionale, per servizi resi con atteggiamento adulto; da qui l’impegno di formazione. Messi insieme questi tre elementi – Caritas parrocchiali, rete di aiuti qualificata dall’ascolto, scelta attenta delle persone – si configurano potenzialità belle: sarà favorita la crescita di cristiani adulti e di comunità vive, si qualificherà la capacità di testimonianza in un tempo postcristiano. Si può peraltro contare su molteplici segni di carità nei vari ambiti della vita, come pure su strumenti per l’attenzione al territorio, come l’Osservatorio delle povertà, o di strumenti per i rapporti con le istituzioni come i “Patti sociali”. Né vanno dimenticati i poveri del mondo, a cui rimanda il gemellaggio con Butembo-Beni, e gli immigrati, che sono ormai una presenza strutturale nelle nostre città. Nell’insieme risuona attuale l’invito del Sinodo: “i poveri non sono solo persone da aiutara ma il luogo dove collocarsi se si vuole stare con il Dio di Gesù”. E se si vogliono togliere veli al suo volto per chi, più o meno consapevolmente, lo cerca.