Le parole. Si fa presto a dire “credo” ma non senza conseguenze

Pubblichiamo un articolo a firma del Teologo Giuseppe Lorizio, pubblicato su “Avvenire” e così commentato dal vescovo mons. Antonio Staglianò, Presidente della Pontificia Accademia di Teologia:

“È bello vedere come la teologia e il teologo possano aiutare la riflessione pubblica e orientare a un discernimento critico su temi religiosi che attraversano non accidentalmente la vita di tutti (anche politica)… distinguere si deve per non confondere (Aristotele), poi però occorre mantenere i poli in tensione: debole e forte nel Credo stanno in tensione pendolando, finché il significato si arricchisce verso il senso forte e si estenua verso quello debole. Sicché c’è un’area in cui Credo (opinione) non significa nulla e c’è un’area in cui Credo (adesione a una persona) significa tutto. Ecco il pericolo: che con la scusa dell’opinione sul programma, il tipo si presenti come il Salvatore “in cui” credere. Grazie a Lorizio per la precisazione teologica: nei suoi interventi si dimostra come la teologia scientifica “serve la Chiesa” diventando per questa via sempre più popolare e incarnata”.

Di seguito la riflessione di Lorizio:

Le parole. Si fa presto a dire «credo» ma non senza conseguenze

E una gran lezione Vedere la parola «credo» sui manifesti elettorali di una o più città è certamente singolare e interessante. Del resto, non è difficile pensare che dietro la scelta di un leader politico attento agli umori dei molti, in questo caso Matteo Salvini, vi sia un’accurata indagine sul sentire del popolo, composto di eventuali elettori. Anche per questo non possiamo non interrogarci sul senso del credere e della sua semantica nell’oggi della storia.

L’accezione è senz’altro duplice. Nel linguaggio diffuso può sembrare che, se qualcuno afferma di credere in qualcosa, in fondo stia semplicemente esprimendo la propria opinione sul tema. Gianni Vattimo racconta che interpellato da Gustavo Bontadini, il quale gli chiedeva se credesse, rispose immediatamente e semplicemente «credo di credere» (di qui un suo libro). Allora ci chiediamo: quella che segue il verbo alla prima persona è una filastrocca di opinioni, che attendono di essere vagliate nel confronto pubblico e nel dialogo politico? Oppure si tratta di una professione di fede in senso squisitamente teologico?

Nel testo si afferma che si tratta di una ‘fede laica’, ma anche in questo caso si può evocare il senso del ‘credere’ non come mera opinione, ma come adesione certa e assoluta a una serie di verità o princìpi o valori. Ed è qui il punto cruciale. Se quando dico «credo» intendo un affidamento incondizionato, allora la domanda diventa: in chi o in che cosa credo? La fede biblica, e in particolare neo-testamentaria, rivolge la propria adesione non a un cosa, come una serie di progetti e intenzioni, princìpi e valori, ma a un Chi. Si tratta di un rapporto interpersonale: io-tu. E per il credente cristiano si tratta del proprio rapporto con Gesù di Nazareth. Per questo possiamo parlare di un credere forte e di un credere debole.

E, sempre per questo, si tratta della prima persona che afferma di credere. Diventa così interessante pensare, anche nel nostro problematico contesto socio-politico, che la fede in senso forte può essere indirizzata solo a una persona (per noi il Dio di Gesù Cristo), laddove la fede in senso debole (ossia come opinione) può rivolgersi anche a delle tesi, a dei programmi a delle scelte empiriche. Allora se un leader politico sostiene sul verbo credere una serie di opinioni proprie e della sua parte, la sfida si esprime in termini di un rapporto-dibattito razionale su quelle scelte nel contesto in cui esse si propongono. E qui entra in campo la «ragione storica e politica», che tutti siamo chiamati ad esercitare, onde configurare la nostra opinione in rapporto alle prossime elezioni. Pertanto, non si può in alcun modo intendere un ‘credo’ politico in senso religioso o cristiano. E fin qui ci siamo espressi su quella che in teologia si denomina la fides qua creditur, cioè l’atto di fede.

Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?», lo starec Giovanni, «simile a un cero candido», rispose: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel Cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano, noi siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi fare tu per noi, eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è risuscitato e che verrà di nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore».

Il grande imperatore aveva un progetto certamente condivisibile e profondamente umanitario, ma tale da annientare le differenze e richiedere un atto di fede incondizionato verso la propria persona. Ma proprio onde evitare ogni possibile deriva populista, sarà bene che, mentre leggiamo sulle facciate delle nostre città la parola «credo», cerchiamo di distinguere i diversi significati e le diverse condizioni che questo verbo propone a tutti noi.