Omelia in occasione dell’apertura al culto e dedicazione della Chiesa San Massimiliano Maria Kolbe Chiesa San Massimiliano Maria Kolbe – Modica

14-09-2023

Con il cuore ricolmo di gioia e animato da forte speranza saluto tutti voi che partecipate a questa solenne celebrazione per la dedicazione della nuova Chiesa parrocchiale dedicata a San Massimiliano Maria Kolbe, grande testimone della misericordia di Dio nella stagione dell’Olocausto consumatasi nel campo di sterminio di Auschwitz, santo che ha vissuto la perfezione della carità attraverso il dono supremo della vita. «Nessuno ha un amore più grande: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13): e lui consegnò la propria nelle mani del nemico per salvare quella di uno sconosciuto. 

Saluto il Sindaco, la Dott.ssa Maria Monisteri e le autorità civili e militari presenti; saluto il caro parroco don Armando e tutti i sacerdoti e i diaconi che concelebrano con me; un caro e affettuoso saluto al nostro Seminario, agli ideatori, ai costruttori di questo tempio e a tutte le maestranze che qui hanno lavorato. Saluto i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani e quanti, in modo particolare gli ammalati e le claustrali, ci seguono via social. 

Infatti vorrei che il mio saluto giungesse forte nelle vostre case, soprattutto dove ci sono persone che soffrono, perché anch’esse si sentano partecipi di questa nobile assemblea liturgica; fratelli e sorelle che sentano nel saluto del vescovo la carezza di Dio sulle loro sofferenze. 2 

Ringrazio Don Armando Fidone per la tenacia e per la forza con cui si è speso, in questi ultimi anni, in ogni campo e settore per l’edificazione di questo tempio, Don Paolo Alescio e Mons. Antonio Staglianò iniziatori dei lavori, i signori Giovanni Di Rosa e Giovanna Licitra che hanno donato il suolo per la costruzione della Chiesa, l’architetto Fabio Bruno, gli Uffici della Curia che hanno seguito i lavori, i collaboratori e volontari della Parrocchia, il Sindaco e le autorità civili e militari della Città di Modica per la fattiva e concreta collaborazione. 

«Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio risuoni per le acclamazioni del popolo in festa» (Exultet). 

Mi introduco in quest’omelia con le parole dell’Exultet che viene cantato nella veglia pasquale, perché mi sembrano quelle più opportune per esprimere i sentimenti che si spiegano nel mio e, sono sicuro, anche nel vostro animo. 

«Gioisca la madre Chiesa»: perché è «splendente della gloria del suo Signore». È tutta la Chiesa che come madre gioisce questa sera e gioisce perché splende della gloria di Cristo Risorto. Non c’è altro motivo perché la Chiesa splenda se non per la gloria di Gesù Risorto. Ma quale Chiesa gioisce e splende? Quella fatta di «pietre vive», come ci ricorda San Pietro nel suo magistero. La Chiesa vera, cari amici, è quella fondata sulla fede nel Signore Gesù. 

La Chiesa è una comunità di credenti che professano il Dio vivo ed attestano che Cristo è il Figlio di Dio, il Redentore del mondo. E noi, cari fratelli e sorelle, siamo una piccola parte di questa grande comunità della Chiesa edificata sulla fede degli apostoli. Noi che annunziamo e professiamo la fede nel Figlio di Dio rendendoci partecipi del Regno di Dio. 

Siamo stati costituiti Chiesa-comunione e dobbiamo porre ogni sforzo per vivere ciò che siamo. Questo tempio, che oggi dedichiamo a Dio, costituisce, al tempo stesso, ciò che siamo e ciò che dobbiamo continuamente realizzare nella fatica quotidiana. 

Ogni volta che vi passeremo dinanzi, guardando la sua imponenza, dobbiamo ricordare la forza che scaturisce dalla comunione e dalla misericordia. Tutte le volte che entreremo tra le sue mura, dobbiamo umilmente chiedere a Dio di farci crescere nell’unità, non solo con i cristiani della parrocchia o della città o della diocesi, ma del mondo intero. E quando usciremo da questo tempio, dobbiamo portarci la volontà, l’impegno e l’entusiasmo di porre sempre semi di comunione e non di divisione. 3 

In questo modo, miei cari amici, questa casa di Dio tra le nostre case diventa la casa comune, la casa di tutti e di ciascuno, dove nessuno si sente estraneo o forestiero. Dove chi ha, impara a condividere e chi non ha, impara ad accogliere. 

Luogo di accoglienza, inclusivo, dove sarà annunciata la fede ma si vivrà in unità con chi è in continua ricerca della verità. I ragazzi e i giovani trovino in questa chiesa e nei suoi locali pastorali, lo spazio ideale per crescere come «buoni cristiani e onesti cittadini». Sarà la Casa di Dio, la tenda dell’Altissimo tra le case degli uomini. 

È questo il primo impegno di una comunità parrocchiale che riceve una nuova Chiesa. Ed ora vorrei richiamare alcuni elementi architettonici per spiegarne il significato spirituale. 

Innanzitutto il portale d’ingresso. Gesù ha detto: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Tutte le volte che attraverseremo quella porta dovremo ricordarci che stiamo entrando in Cristo Gesù. Mi piace pensare alla porta come alla ferita del costato di Cristo: attraverso di essa entriamo nell’intimità con Gesù. Veniamo in questo luogo proprio per cercare l’intimità con il Signore, quell’intimità che spesso ci dà coraggio nelle sofferenze, nelle malattie, nelle incomprensioni, nelle delusioni, ma ci permette anche di gioire dei buoni risultati familiari, lavorativi, sociali ed ecclesiali. Quell’intimità che ci fa sentire veri uomini, persone complete e soddisfatte. La porta è Cristo, non scordiamolo! Un tempo i pellegrini che giungevano da lontano baciavano gli stipiti delle porte della Chiesa come atto di culto e di amore a Cristo e come ringraziamento per essere giunti a poter entrare nella Chiesa. La porta ci deve anche ricordare il nostro Battesimo: questo, infatti, è la porta dei sacramenti e la porta della fede. 

Poi c’è l’ambone. È il luogo dal quale viene proclamata la Parola di Dio; come tale, deve corrispondere alla dignità della Parola stessa. L’ambone è lì, nella sua nobile struttura per rammentare ai fedeli che la mensa della Parola di Dio è sempre imbandita da quando Cristo, vincitore della morte, con la potenza del suo Spirito ha rovesciato la pietra del sepolcro (Cfr. Benedizionale, n. 1238). L’ambone è posto di fronte all’assemblea per far sapere a tutti che Dio vuole intrattenersi familiarmente con gli uomini, vincendo ogni distanza per realizzare la Sua prossimità e far risuonare al nostro cuore una voce familiare. 4 

Proprio così: mentre la voce del lettore proclama il testo, è Dio stesso che si avvicina e discende in mezzo al Suo popolo. Sì, la voce della Parola, infatti, è come la voce dello Sposo che desidera intessere un dialogo d’amore con la Sua fidanzata, suscitando il desiderio dell’incontro personale cui rivolgersi «per vedere la voce» (Ap 1, 10). 

L’ascolto della parola di Dio deve portarci al pentimento e alla vera fede, alle lacrime del cuore, perché mentre Dio ci parla con la Sua Parola, ci svela l’intimo di noi stessi, ci invita a non allontanarci da Lui e dal prossimo. Mi piace pensare all’ambone come al Monte delle Beatitudini, sacro luogo da cui Cristo ha rivelato la legge nuova del Suo Regno. Ricordiamolo: dall’ambone è Dio che ci parla! 

C’è poi il fonte battesimale. È il grembo della Chiesa, dal quale rinascono a vita nuova i figli adottivi di Dio. Dinanzi al fonte battesimale i battezzandi rivivono la drammaticità del diluvio universale, il cammino di Mosè attraverso il Mar Rosso, la visione del Battista al Giordano che vide lo Spirito discendere su Gesù, l’esperienza della Madonna e di San Giovanni sul Calvario, quando dal costato aperto di Cristo sgorgò l’acqua dello Spirito. 

Presso il fonte si professa la propria fede per la prima volta. I bambini lo fanno tramite i genitori e i padrini. Allora il fonte è il luogo del nostro primo “si” a Dio, e la visione del fonte deve richiamarci il nostro essere nuova creatura e deve far sorgere in noi la gratitudine al Padre che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato. 

Il punto d’arrivo in questo tempio santo è l’altare, perché Cristo è l’altare! L’altare è il segno e il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo ed è posto al centro per manifestare una presenza profondamente umana e fraterna, da cui ci viene pressante l’invito: «Venite a mangiare». Gesù, invitandoci alla Sua mensa, ci fa Suoi commensali. 

L’altare è, contemporaneamente, il luogo del sacrificio salvifico di Cristo ed il luogo della Sua convivialità con l’uomo redento. È pietra sacrificale ed è mensa nuziale. 

Ogni domenica, quando parteciperete alla celebrazione eucaristica, su questa mensa sarete chiamati a deporre tutta la vostra vita: gioie e dolori, ansie e attese, lacrime e sorrisi. E da questa mensa riceverete il nutrimento per non fermarvi nel cammino, per avere la forza di giungere alla patria celeste, per avere la forza di lottare contro il maligno sapendo di avere già la vittoria di Cristo. 5 

L’Ordo dedicationis Ecclesiae prevede che nell’altare siano deposte le reliquie di santi. 

In questo altare vi si trovano custodite le reliquie di San Corrado Confalonieri, nostro Patrono e della Beata Madre Speranza di Gesù, fondatrice delle Ancelle e dei Figli dell’Amore Misericordioso di Collevalenza. Santi testimoni credibili dell’amore benevolo di Dio. Deponendoli in questo altare, intendiamo chiedere a Dio che ogni nostra celebrazione eucaristica ci renda testimoni santi, capaci di costruire il Regno di Dio tra gli uomini del nostro tempo. 

Completano l’arredo liturgico la sede della presidenza e il tabernacolo. La sede della presidenza è orientata verso il luogo dell’annuncio, perché chi presiede l’Assemblea liturgica deve per primo prestare ascolto per poter poi insegnare ed è posta in prossimità dell’altare perché il Presidente, con il suo servizio liturgico opera la santificazione del popolo che gli è affidato dal Vescovo. 

Il tabernacolo è il luogo in cui Cristo attende per essere adorato. È il luogo dove si può stare cuore a cuore con il Signore, dove si possono effondere i canti della gioia e le lacrime del dolore. E la sua forma slanciata ci innalza naturalmente verso il Cielo. Ecco, miei cari, questo è il significato del tempio che dedichiamo a Dio. 

Esaltiamo la Croce di Gesù, perché in essa si è rivelato l’intenso amore di Dio per l’umanità. È quello che ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella liturgia odierna: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito» (3,16). 

Il Padre ha “dato” il Figlio per salvarci, e questo ha comportato la morte di Gesù e la morte in croce. Perché è stata necessaria la Croce? A causa della gravità del male che ci teneva schiavi. La Croce di Gesù esprime tutt’e due le cose: tutta la forza negativa del male e tutta la mite onnipotenza della misericordia di Dio. La Croce sembra certificare il fallimento di Gesù ma in realtà segna la sua vittoria. Sul Calvario, quelli che lo deridevano gli dicevano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (cfr Mt 27,40). Ma era vero il contrario: proprio perché era il Figlio di Dio Gesù stava lì, sulla croce, fedele fino alla fine al disegno d’amore del Padre. E proprio per questo Dio ha «esaltato» Gesù (Fil 2,9), conferendogli una regalità universale. 

E quando volgiamo lo sguardo alla Croce dove Gesù è stato inchiodato, contempliamo il segno dell’amore, dell’amore infinito di Dio per ciascuno di noi e la radice della nostra salvezza. Da quella Croce scaturisce la misericordia del Padre che abbraccia il mondo intero. 6 

Questo è importante: per mezzo della Croce di Cristo ci è restituita la speranza. La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. 

La nostra venerazione non si ferma a quel pezzo di legno. Il nostro atto di adorazione termina in Colui che su quella croce ha dato la Vita, a Colui che si è così profondamente svuotato di Sé per noi, da morire su quel legno per i nostri peccati, per comunicarci la Sua vita. 

La Croce è l’insegna del Cristo vittorioso sul peccato e sulla morte. Eppure, sebbene sia insegna di vittoria, dobbiamo renderci conto quanto paradossale sia l’agire di Dio in questo Suo riportare vittoria sul peccato e sulla morte. Dio vince proprio quando, umanamente, appare sconfitto; Dio dona la vita proprio quando agli occhi di tutti non appare più che un cadavere; Dio ci fa ricchi delle Sue infinite ricchezze proprio quando resta nudo e privo di tutto, bisognoso persino di una tomba prestata… 

Questa festa ci ricorda quale sia la nostra missione: testimoniare il nostro amore a Gesù Cristo, e di conseguenza amare il Suo Corpo Vivente oggi, che è la Chiesa, la Chiesa composta di pietre vive, di quanti sono stati ricomprati a prezzo del Sangue prezioso del Redentore. 

Gesù non ci chiede di onorare la Sua Croce, ma di imitarLo, di seguirLo, prendendo ciascuno di noi la nostra propria croce. E questo significa offrire la nostra vita in un unico atto di donazione a Dio e ai fratelli, incondizionato, senza riserve. 

Significa anche per noi accettare il paradosso della Croce come abbandono dei nostri modi umani di vedere e di giudicare, per entrare nella logica di Dio: “le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri” (Is 55,8). 

Si, siamo legati a quella croce. Non possiamo toglierla dal nostro orizzonte. Siamo anche noi inchiodati in quella croce, insieme a tutti gli uomini. La liturgia oggi ci invita a fare nostra questa croce, a ritrovarci, come uomini, in quel pezzo di legno. Non abbiamo alibi e non possiamo fuggire da questa verità: nella croce, Cristo mi fa uomo come Lui, uomo di dolore e di offerta. E insieme a me, sono inchiodate su quella croce le mie infamie, i miei peccati e le mie paure. 

In quella croce, insomma, ritroviamo tutta l’umanità sofferente: le ingiustizie, le guerre, i soprusi, le umiliazioni, il grido di dolore di ognuno. 7 

Questa festa ci invita tutti a ritrovarci nella croce, ma in quella di Cristo. Ci invita cioè non solo a saper vedere in ogni sofferenza il Cristo crocifisso e associare il nostro dolore al Suo, ma ci invita anche a ritrovarci nella capacità di perdono, nel desiderio di donare salvezza, nella necessità di essere veri, senza maschere. 

A me oggi questa solennità richiama questo: accettare di vivere e morire in perdita. Senza calcoli, senza tornaconti, senza ragionevolezza. Sul calvario non si ragiona, si contempla. E si contempla Cristo che sulla croce si dona totalmente e con amore. 

Chi crede nell’amore che sgorga dalla croce tiene le braccia spalancate e il cuore aperto: può donare il perdono ai crocifissori e il Paradiso al buon ladrone. 

Il mondo oggi ha bisogno della croce di Cristo. Ha bisogno di persone che sanno spendersi e perdersi. Per il mondo saranno come morti, cioè inutili. Ma saranno loro i testimoni della vera vita. 

Abbiate cura, parrocchiani e Parroco, che questa sia sempre la casa di tutta la comunità, la casa comune, soprattutto la casa dei poveri, cioè dei crocifissi risorti. San Massimiliano Maria Kolbe, santo dell’amore offerente, totale ed esclusivo custodisca questo tempio e questa comunità. Amen.