Naufragio migranti. Il Vescovo di Noto: passare dall’indifferenza alla fraternità

 “Vi confido il dolore, ci interroghiamo”: così papa Francesco al Regina coeli di domenica 25 aprile ha dato voce al nostro turbamento e al forte desiderio, anzi alla volontà e necessità, di cammini nuovi, davanti all’ennesima tragedia nel Mar Mediterraneo, cimitero assurdo di altri 130 migranti, morti dopo due giorni di invocazione di aiuto non ascoltata. È un nuovo episodio di “barbarie dal volto umano” aggiunta a tante altre, documentate con attenzione dalla nostra stampa cattolica, in particolare Avvenire, che rende così un prezioso servizio all’intelligenza dei credenti, aprendo i loro occhi e il loro cuore. 

“Preghiamo per loro e per chi si è voltato dall’altra parte”: ha ancora chiesto papa Francesco. La preghiera diventa vera come condivisione del grido inascoltato dei poveri della terra e dei nostri territori. Se vera, la preghiera ci impegna a “non passare oltre”, a farci carico, proprio nei giorni in cui la rivelazione di Dio in Gesù prende il volto del “pastore buono”, il quale si fa carico delle sue pecore e di tutte le pecore, anche di quelle che non sono nell’ovile della Chiesa, perché tutti figli dello stesso Padre. 

“Fratelli tutti” non è un semplice sogno del papa o di alcuni visionari. È l’unico futuro degno dell’umanità. Così, con tanti altri, mentre chiediamo all’Europa dei governanti di ripensare a una rinascita dalla pandemia nel segno dell’apertura alla famiglia umana e dell’attenzione ai più deboli, ci sentiamo tutti coinvolti per la nostra parte nell’esodo necessario dall’indifferenza alla fraternità. La Chiesa, per questo, pone segni, accogliendo i poveri del territorio e i migranti con reti di prossimità e presidi di legalità, e vuole essere segno di un’umanità fraterna. Le sue prese di posizione non sono dettate da “visioni politiche”, ma dall’urgenza del senso della giustizia del Vangelo. Tantomeno propongono “soluzioni tecniche” alla politica, mentre non possono non fare appello alla coscienza di tutti, perché si resti umani e si consegni alle nuove generazioni un mondo bello e ospitale. 

Aiutare vite in difficoltà, accresciute nei nostri territori dalla pandemia, e soccorrere vite in pericolo è un dovere a cui non si può venire meno, perché ogni persona, soprattutto se nel bisogno e in pericolo, è immagine di Dio e sua visita. Aiutando e salvando i più deboli però salviamo anche 2 

noi da un’indifferenza che anestetizza e insterilisce. È tempo di coraggio, di generosità, di visione lungimirante. È tempo di una nuova immaginazione della società aperta e solidale, che si radica nel cuore di chi vuole restare umano e consegnare un’eredità di vita buona ai figli. 

“Pregare e operare” per la giustizia diventano quel “camminare che apre cammini”. Insieme, sempre insieme, e mai da soli. È indispensabile evitare di fermarci alle parole: è urgente impegnarci a esserci con quella carità che, come lucidamente affermava il beato Antonio Rosmini, è vera se unisce corpo, intelligenza e cuore! 

Allora, “pregare è operare per la giustizia e agire per salvare vite umane”, diversamente si corre il rischio serio di fare delle nostre preghiere un “circolo vuoto di parole” che Dio stesso da detto di non voler ascoltare: “anche se moltiplicate le preghiere io non le ascolto” (Is. 1,15). Piuttosto, “imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, alla vedova” (Is. 1,17), e si può aggiungere al migrante. “Proteggete la vita umana, dal primo istante del suo concepimento fino alla sua morte naturale e, durante l’esistenza, difendetela sempre, anche a costo della vita”, direbbe Gesù Cristo, da cui i cristiani prendono non solo il nome, ma il potere e la bellezza di amare, come Lui ha amato noi. Dopo tutto il cristianesimo nasce da un evento di incarnazione – “Il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14)- e il Vangelo si comunica con “fatti e parole” intrinsecamente connessi, non solo a parole, come ha insegnato il Concilio Vaticano II. 

Su questa scia, l’intenzione di preghiera che i vescovi di Sicilia hanno divulgato nelle parrocchie, dopo la tragedia della morte di 130 migranti, – «Lo Spirito Santo aleggi sulle acque, affinché siano fonte di vita e non luogo di sepoltura, e illumini le menti dei governanti perché, mediante leggi giuste e solidali, il Mare Nostrum sia mare di pace, arco di fratellanza di popoli e culture»– si genera da un’assunzione di responsabilità a operare, ad attivare processi educativi, a porre gesti concreti perché la preghiera giunga al cuore di Dio e da Dio venga benedetta, ascoltata ed esaudita. 

Si, l’esodo che urge è il passaggio dall’indifferenza alla fraternità, per dare senso alla preghiera cristiana, diversamente alienante.

Antonio Staglianò,  Vescovo di Noto