«LA MISTICA DEL BUON PASTORE»

Omelia nella Santa Messa in occasione della Festa di San Cataldo Chiesa Madre – San Cataldo
10-05-2023

Come amati e diletti discepoli del Signore ci ritroviamo in questa augustissima Chiesa Madre a celebrare il mistero di Dio che visita il Suo popolo, il Suo amato gregge mentre onoriamo il Patrono San Cataldo, maestro della fede, missionario infaticabile della Parola di Dio, padre e fratello dei poveri, degli indifesi e dei cercatori di Dio.

Custoditi e sostenuti dalla Parola del Signore che si rivela a noi come il Buon Pastore che conosce le sue pecore e se ne prende cura, ci rallegriamo per la Sua benevolenza e la Sua Misericordia.

In questo tempo di grande smarrimento e di innumerevoli, e a volte, invisibili fragilità, disorientati dalle continue false promesse fatte a basso costo dai figli delle tenebre, risulta fondamentale, come ci invita la liturgia, a volgere lo sguardo a Cristo Buon Pastore.

Nell’Antico Testamento il titolo di Pastore spetta a Dio, guida di Israele. Così recita il Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Quella del Pastore è sempre stata, nell’Antico Testamento (Nm 27,15-17; Ger 23,3-4; Ez 34), un’immagine straordinaria per narrare la relazione e l’incontro tra il Signore e il popolo di Israele.

Dio è il Pastore, ma affinché questa sua qualità sia riconosciuta dai credenti, Egli invia al suo gregge dei pastori, scelti «perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore» (Nm 27,17).

Lui è il Buon Pastore e si prende cura di tutti i suoi figli con premuroso amore, pronto a dare la vita in maniera disinteressata. Senza tornaconto perché la custodia del Buon Pastore è fondata sul rapporto di «conoscenza» e, dunque, di «amore».

Un amore che è paragonabile solo alla relazione di amore tra il padre e i suoi figli al punto che Gesù stesso sente il bisogno di richiamarsi, per confronto, al medesimo rapporto di «conoscenza e amore» che intercorre tra Lui e il Padre: «come il padre conosce me e io conosco il Padre» (v.15).

Come un vero padre, il Pastore dà la vita per le sue pecore e andrà a cercarle anche se dovessero smarrirsi. Anzi, proprio in questo caso, maggiore sarà la cura del pastore, pronto a lasciare le restanti novantanove per mettersi sulle tracce dell’unica perduta e sarà grande la sua gioia se riuscirà a ritrovarla (Mt 18,12-14) perché la volontà del Padre è che nessuno si perda.

È proprio l’amore e la cura a fare la netta differenza tra il Pastore Buono e il Mercenario che non esita a lasciare le pecore in preda e in pasto ai lupi perché non ha a cuore la loro vita. Il Mercenario non ha infatti alcuna relazione personale con le pecore a differenza del Pastore Buono che le conosce in profondità al punto da chiamarle «una per una» (Gv 10,3).

Molto probabilmente la proposta di «essere pecore» dietro ad un Gesù Pastore non è un’icona vincente rispetto alla ferocia del lupo che ha la meglio sul gregge – e quanti lupi in giro sulle strade di ogni giorno –  ma rimane il fatto che la chiamata del discepolo di Cristo è ad essere espressamente «agnello» e non certo lupo, «agnelli inviati in mezzo ai lupi» (Lc 10,3).

Anche se dovesse attraversare la «valle oscura» della croce, il cristiano ha la consapevolezza che dietro a Gesù nulla potrà danneggiarlo, nulla potrà rapirlo dalla Sua mano perché «né morte né vita, né angeli né principati, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,39).

Per Dio noi siamo unici, irripetibili, siamo figli. Siamo un pezzo del Suo Cuore. E per tutti noi ha perso la testa amandoci così come siamo. E Gesù ha un compito preciso: chiamando le pecore per nome, le fa «uscire», fa compiere loro un esodo dal recinto ai pascoli aperti, alla libertà. In queste poche parole riportate da Giovanni è delineato tutto il cammino del discepolo, pecora del gregge di Gesù: deve ascoltare la voce del pastore, deve riconoscerla come parola per sé, deve dunque conoscere il pastore e, quindi, seguirlo con fedeltà, in vista di una «vita in abbondanza».

«Io sono il pastore bello e buono, che depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). La manifestazione della venuta «pastorale» di Gesù non consiste nelle idee, nella dottrina, nel solo insegnamento, ma nel deporre e spendere la vita per le pecore. Sta proprio qui il segreto del nostro essere discepoli, veri cristiani, testimoni credibili. Il mondo, oggi, ha bisogno di questo: di testimoni che sappiano stare sulle strade del mondo con il vangelo di Cristo nel cuore.

Se Dio era cantato nel salmo quale Pastore del credente al quale nulla manca (cfr. Sal 23,1), Gesù è disposto a dare la sua vita per le pecore. E se nei vangeli sinottici il pastore della parabola era pieno di amore, fino ad andare a cercare la pecora smarrita per riportarla a casa (cfr. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), qui il pastore dà la sua vita sia per la pecora smarrita sia per quella che rimane nel recinto.

Viene così individuato il rapporto tra il pastore e le pecore: una conoscenza reciproca che diventa amore, una conoscenza attraverso la quale il pastore conosce le pecore in profondità e le pecore giungono a riconoscere il pastore come colui che ha cura di loro perché le ama. Esperienza indicibile e autentica, nella quale si ascolta la voce del Cristo, si giunge a discernere la Sua presenza, ma soprattutto ci si sente amati, compresi, perdonati da un amore che è sempre anche e soprattutto misericordia.

Le nostre comunità tornino a mettere Dio al centro, quel Dio che chiede tutto e, in cambio, offre la vita in pienezza. Quella vita che sgorga dalla Sua compagnia che mai viene meno, dalla forza umile della croce del Suo Figlio, dalla sicurezza serena dell’amore vittorioso che ci abita.

La fede viene dall’an­nuncio: ma per annunciare bisogna aver ascoltato, essere diventati intimi della Parola che si predica. E solo la vicinanza con Dio ci permetterà di essere davvero annunciatori del dono di Cristo per la sal­vezza di tutti. Con lo stile della misericordia.

Afferma Papa Francesco: «La misericordia di Dio trasforma il cuore dell’uomo e gli fa sperimentare un amore fedele e così lo rende a sua volta capace di misericordia. È un miracolo sempre nuovo che la misericordia divina si possa irradiare nella vita di ciascuno di noi, motivandoci all’amore del prossimo e animando quelle che la tradizione della Chiesa chiama le opere di misericordia corporale e spirituale. Esse ci ricordano che la nostra fede si traduce in atti concreti e quotidiani, destinati ad aiutare il nostro prossimo nel corpo e nello spirito e sui quali saremo giudicati: nutrirlo, visitarlo, confortarlo, educarlo».[1]

In Gesù, Buon Pastore abbiamo il tratto di un Dio ospitale, che apre le braccia ai peccatori e agli smarriti di cuore, condivide il passo con le fragilità dell’umanità, si lascia toccare e ferire fino alla discesa nella morte di croce. Questo Volto e Corpo del Cristo, testimoniatoci ampiamente dai vangeli, ci indica la paternità amorevole di Dio che si fa carne in Maria e nella Chiesa, luogo e spazio dell’accoglienza senza frontiere per l’umanità; un Dio che annulla le barriere e mostra l’amabilità di un tratto accogliente, aperto e ospitale. Questo modo di essere di Gesù è anche il fondamento dell’essere e della prassi dei suoi discepoli radunati dallo Spirito nella Chiesa. Non ci potrà essere nuova evangelizzazione senza che la Chiesa stessa si adoperi affinchè vengano abbattuti alcuni pregiudizi che la dipingono come uno «spazio chiuso».

Bisogna ritrovare il gusto e l’entusiasmo di vivere una nuova tappa evangelizzatrice. Ci si augura che possa davvero germogliare in tutte le comunità una nuova passione per il Vangelo e un rinnovato amore per coloro che vivono nelle periferie esistenziali e di povertà in cui oggi è impellente davvero una parola di risurrezione.

Servono comunità non lontane dalla creatività e l’immaginazione, che vivano intensamente la mistica della fraternità, che custodiscano la prossimità con i poveri e che sappiano, quando è il caso, anche dare fastidio. Servono parrocchie abitate da credenti «feriti» dallo sguardo d’amore di Gesù.

Emerge il desiderio di vivere un’esperienza ecclesiale più ricca e più aperta a tutte le fasce d’età e recuperare una dimensione essenziale del discepolato cristiano che è quella della festa perché la fede si trasmette per attrazione, per contagio e per riflesso. Il prendersi cura degli altri fa crescere in umanità e richiede un grande senso di responsabilità, di corresponsabilità, di dedizione, di generosità, di amore. Il prendersi cura ci ricorda lo sguardo di compassione di Gesù verso ogni categoria di bisognosi. Il prendersi cura ricorda, a tutti e a ciascuno, come la comunità cristiana è nel mondo come segno e strumento della vera salvezza.

La storia della nostra amata chiesa nissena racconta che 30 anni fa proprio come oggi il Successore di Pietro nella persona di San Giovanni Paolo II visitava la nostra bellissima e tormentata terra. La sera del 9 maggio, in viale Regina Margherita, dinanzi al nostro amatissimo Seminario la sua parola ci incoraggiava a prendere il largo: «Carissimi fratelli e sorelle, vengo a voi nel nome del Risorto, vengo come pellegrino di speranza e di fraternità. So di trovare in questa terra numerose energie e grande disponibilità, ma anche tanti problemi e comprensibili motivi di preoccupazione. A tutti e a ciascuno, cittadini di Caltanissetta e dell’intera regione, ripeto l’esortazione di Cristo: “Non temete!” (Mt 28, 10). Nell’ora travagliata che la società sta vivendo, la parola del Signore ridesta la fiducia ed infonde il coraggio necessario per costruire coraggiosamente un mondo nuovo. Sul monte che sovrasta questa bella Città, svetta il Monumento a Cristo Redentore, eretto all’inizio del nostro secolo. Gesù leva il braccio benedicente sull’Isola e mostra la croce, segno di salvezza e di redenzione. Caltanissetta! Posta nel cuore della Sicilia, tu sei crocevia di strade che hanno scandito il cammino della civiltà sicula: sii ancora oggi all’altezza di questa tua vocazione; riscopri la fede dei tuoi padri, crescendo senza tentennamenti nella fedele e docile attuazione dei valori della civile convivenza. Sii luogo di accoglienza e di incontro. Chiesa di Caltanissetta! Alle soglie del terzo Millennio, a te, come un tempo a tutti i suoi discepoli, Cristo ripete le parole del mandato missionario: “Andate e annunziate” (Mt 28, 10). Va’ e annunzia, Chiesa di Caltanissetta. Vivi la tua fede nella sua interezza, trasmettila con coraggio, accendi nei cuori l’ardore apostolico, testimonia la carità. Soprattutto fa’ in modo che tutti possano sperimentare la tenerezza dell’amore di Dio».[2]

A distanza di tanto tempo, possiamo attestare che quella parola nelle nostre comunità ha preso vita, si è fatta carne come vangelo di misericordia nell’apostolato di molti confratelli sacerdoti e nella bella testimonianza di fedeli laici che nei nostri comuni hanno testimoniato e testimoniano nella fede semplice, l’adesione a Cristo e al Suo Vangelo.

Pregate per me, perché possa seguire il Signore nella santità di vita. Con voi e per intercessione di San Cataldo e, permettetemi, di San Corrado dico grazie al Signore che mi ha chiamato ad essere Successore degli Apostoli, a guidare, amare e servire la Sua Chiesa che vive a Noto, Modica, Ispica, Scicli, Pozzallo, Avola, Rosolini, Pachino e Portopalo: il Val di Noto. Come Successore degli apostoli, chiedo la vostra preghiera e benedizione per essere servo di tutti, ministro di comunione, santità e misericordia!

[1] Francesco, «“Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9, 13). Le opere di misericordia nel cammino giubilare», Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2016, n. 3.

[2] Giovanni Paolo II, Saluto alla città di Caltanissetta, 9 maggio 1993