«LA PARROCCHIA CASA COMUNE»

Omelia in occasione dell’apertura al culto e dedicazione della Chiesa San Giuseppe
13-03-2024

Con il cuore ricolmo di gioia e animato da forte speranza cristiana, saluto tutti voi che partecipate a questa solenne celebrazione per la riapertura al culto e per la consacrazione dell’altare della Chiesa parrocchiale dedicata al Patriarca San Giuseppe.

Saluto il Commissario Giovanni Cocco, il vice-questore, le autorità civili e militari presenti; saluto il caro parroco Padre Giovanni Di Luca, tutti i sacerdoti e i diaconi che concelebrano con me; un caro e affettuoso saluto ai tecnici e a tutte le maestranze che qui hanno lavorato alacremente senza risparmiarsi. Saluto i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani e quanti, in modo particolare gli ammalati e le claustrali, ci seguono via social.

Vorrei che il mio saluto giungesse forte nelle vostre case, soprattutto dove ci sono persone che soffrono, perché anch’esse si sentano partecipi di questa nobile assemblea liturgica; fratelli e sorelle che sentano nel saluto del vescovo la carezza materna di Dio sulle loro sofferenze.

Ringrazio Padre Giovanni Di Luca per la tenacia e per la forza con cui si è speso, in questi anni, in ogni campo e settore per l’abbellimento e la riapertura di questo tempio, gli Uffici della Curia che hanno seguito i lavori, i collaboratori e volontari della Parrocchia.

La Chiesa è una comunità di credenti che professano il Dio vivo ed attestano che Cristo è il Figlio di Dio, il Redentore del mondo. E noi, cari fratelli e sorelle, siamo una piccola parte di questa grande comunità della Chiesa edificata sulla fede degli apostoli. Noi che annunziamo e professiamo la fede nel Figlio di Dio rendendoci partecipi del Regno di Dio.

Siamo stati costituiti Chiesa-comunione e dobbiamo porre ogni sforzo per vivere ciò che siamo. Questo tempio, che oggi dedichiamo a Dio, costituisce, al tempo stesso, ciò che siamo e ciò che dobbiamo continuamente realizzare nella fatica quotidiana.

Tutte le volte che entreremo tra le sue mura, dobbiamo umilmente chiedere a Dio di farci crescere nell’unità, non solo con i cristiani della parrocchia o della città o della diocesi, ma del mondo intero. E quando usciremo da questo tempio, dobbiamo portarci la volontà, l’impegno e l’entusiasmo di porre sempre semi di comunione e non di divisione.

In questo tempio, la comunità cristiana coltivi il senso profondo della gioia, presupposto principale per un nuovo e fiorente inizio missionario. La gioia del Vangelo ci viene donata solo attraverso l’incontro con Gesù Cristo: Lui infatti, è il Vangelo, il lieto messaggio in persona. In Lui, Dio Onnipotente si è fatto uomo per noi, con Lui e in Lui abbiamo accesso alla vita di Dio.

Nel modo di intendere la Chiesa, il primato spetta senz’altro all’idea di una Chiesa della gioia compresa come un’esperienza ecclesiale, una manifestazione dello Spirito Santo che permette di ritrovare lo slancio perduto, l’ardore e l’entusiasmo, termini nodali che attraversano l’intero pontificato di Papa Francesco.

La Chiesa della nuova evangelizzazione deve perciò «mostrare» la propria bellezza, credendo alla gioia che annuncia. Basta, quindi, coi cristiani che «sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (EG 6), con gli evangelizzatori che hanno «costantemente una faccia da funerale» (EG 10), o che imprigionano il Cristo in «schemi noiosi» (EG 11). Papa Bergoglio invita la Chiesa a rialzare la testa, consegnandosi alla tenerezza misericordiosa di Dio. «Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza» (EG 88).

Diamo voce in noi alla gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. E possano i giovani e le famiglie, i bambini e gli anziani di questa comunità ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e arroganti, ma da servitori appassionati e affascinati dal Vangelo, la cui vita irradi fascino e gioia di essere, vivere, amare, credere. E sono moltissimi, anche inconsapevolmente, ad attendere da noi la Parola dell’Amore che libera, dona senso e significato alla vita, per essere e vivere la Chiesa sui sentieri della gioia.

In questo tempio, la comunità cristiana coltivi il senso profondo della vera ospitalità.

Una Chiesa che pone al centro della sua vita la carità e i poveri, l’ascolto e l’annuncio di Gesù, inevitabilmente, recupera anche uno dei suoi tratti più significativi: l’accoglienza ospitale. Il tratto dell’accoglienza ospitale è per la Chiesa una vocazione fondante. Essa si configura come la comunità radunata dal Cristo Signore. In Gesù abbiamo il tratto di un Dio ospitale, che apre le braccia ai peccatori e agli smarriti di cuore, condivide il passo con le fragilità dell’umanità, si lascia toccare e ferire fino alla morte di croce.

Un Dio che annulla le barriere e mostra l’amabilità di un tratto accogliente, aperto e ospitale. Questo modo di essere di Gesù è anche il fondamento dell’essere e della prassi dei suoi discepoli radunati dallo Spirito nella Chiesa. Non ci potrà essere nuova evangelizzazione senza che la Chiesa stessa si adoperi affinchè vengano abbattuti alcuni pregiudizi che la dipingono come uno «spazio chiuso e autoreferenziale».

Sembra di cogliere qui il significato più vero dell’espressione di Papa Francesco nell’intervista a La Civiltà Cattolica: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite». Una pastorale che si contraddistingue per l’ospitalità rende visibile l’immagine di una Chiesa madre e pastora. Continua il Papa nel corso dell’intervista con padre Antonio Spadaro: «i ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il prossimo».

In questo tempio, la comunità cristiana coltivi il senso profondo della missione. Mettere in movimento la mente, il cuore e le mani. Quella del pellegrinaggio è una nota fondamentale nel magistero di Papa Francesco: andare verso gli altri e prendersi cura fraternamente di tutti. Il pontefice esorta la Chiesa a uscire, invita ad essere missionari della gioia. Verso dove dobbiamo andare? Qual è il messaggio del Papa specialmente per la Chiesa in Europa che appare in una fase di stanca nella fede? Cosa significa questa «nuova uscita» per la Chiesa in occidente che sembra trovarsi al crepuscolo della fede?

Il ricorso costante dei termini «in uscita» e «periferia» nel magistero di Papa Francesco inducono a pensare che ci troviamo davanti ad un punto saldo nel pensiero di Papa Bergoglio: la periferia è la chiave ermeneutica per la comprensione dell’attuale pontificato. «Periferia» come luogo fuori dalla Chiesa, come condizione di disagio esistenziale e come povertà materiale.

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (EG 27). Tutti gli uomini sono chiamati a uscire dall’intimismo ecclesiale prendendo l’iniziativa e, soprattutto, aprendosi alle periferie. «La sua gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socioculturali» (EG 30).

L’immagine della «Chiesa in uscita» scorre in parallelo con quella della «Chiesa dalle porte aperte»: «la Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte» (EG 46). C’è, dunque, un doppio movimento da porre in atto, di accoglienza e di ricerca, così come le porte sono fatte per entrare e per uscire. Papa Francesco chiede ai pastori maggiore tolleranza, facendosi «facilitatori» (EG 47) e non «controllori» (EG 47) della grazia, perché «la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (EG 47).

L’immagine guida è quella di una Chiesa della misericordia, contro una pastorale avara, condizionata dalla visione di una Chiesa più ideale che reale. L’ecclesiologia di comunione porta a convertirsi al principio relazionale dove contano le persone mostrando «che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali» (EG 67).

La Chiesa deve crescere lasciando da parte l’istinto di conservazione che porta a dire «si è fatto sempre così» (EG 33). Il principio è che la Chiesa «non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare» dal Verbo (EG 174). Immersa nella storia essa ha bisogno di lasciarsi plasmare dalla Parola che annuncia perché possa veramente raggiungere tutti. La Chiesa di Papa Francesco si trova in una condizione di dono e pone se stessa e le sue attività al servizio di Cristo nel mondo. La Chiesa deve farsi vangelo prima ancora che evangelizzare.

È necessario passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (EG 15), perché «l’attività missionaria rappresenta la massima sfida per la Chiesa» (EG 15). Una sfida non rivolta solamente a chi vive particolari ministeri nella comunità cristiana: infatti «tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria» (EG 20), per far risplendere «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (EG 36). Pertanto, la Chiesa intera è chiamata ad assumere questo dinamismo in termini di apertura avendo cura di privilegiare «i poveri, e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, “coloro che non hanno da ricambiarti” (Lc 14, 14)» (EG 48).

Voglio richiamare un’ultima sottolineatura comprensibile solo se letta alla luce del cammino postconciliare che ha segnato l’esperienza personale di Papa Francesco: la dimensione popolare. Il Concilio Vaticano II ci ha consegnato l’immagine di Chiesa come popolo di Dio: una comunità di battezzati resa protagonista del proprio ruolo, protagonista della missione apostolica e non destinataria passiva, soggetto di Chiesa e non solo oggetto della cura pastorale di Vescovi e parroci.

In questo modo, miei cari amici, questa casa di Dio tra le nostre case diventa la casa comune, la casa di tutti e di ciascuno, dove nessuno si sente estraneo o forestiero. Dove chi ha, impara a condividere e chi non ha, impara ad accogliere.

Luogo di accoglienza, inclusivo, dove sarà annunciata la fede ma si vivrà in unità con chi è in continua ricerca della verità. I ragazzi e i giovani trovino realmente e fattivamente in questa chiesa e nei suoi locali pastorali, lo spazio ideale per crescere come «buoni cristiani e onesti cittadini». Sarà la Casa di Dio, la tenda dell’Altissimo tra le case degli uomini.

È questo il primo impegno di una comunità parrocchiale che riceve la sua Chiesa. Abbiate cura, parrocchiani e parroco, che questa sia sempre la casa di tutta la comunità, soprattutto la casa dei poveri, cioè dei crocifissi risorti. San Giuseppe, uomo giusto, custodisca questo tempio e questa comunità. Amen.