«PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIO»

Omelia nella Santa Messa in occasione della Visita a Delia
30-04-2023

Come discepoli del Signore ci ritroviamo nella nostra Chiesa Madre a celebrare il mistero di Dio, Buon Pastore che visita il Suo popolo, il Suo gregge. E qui, dove il 5 giugno 1966 sono diventato cristiano, con voi dico grazie al Signore che mi ha chiamato ad essere Successore degli apostoli, a guidare, amare e servire la Sua Chiesa che vive a Noto.

Al tempo di Gesù i pastori erano presenti ovunque in Palestina e li si incontrava nelle campagne e nelle città, nelle pianure e sui monti. Ovunque. A Betlemme, in quel primo Santo Natale della storia, furono i primi ad accorrere, i primi a prestare soccorso a quella giovane coppia che, tra mille difficoltà e tanta indifferenza, stava per presentare al mondo l’Autore della vita, il Bambinello Gesù.

Nella Bibbia la figura del pastore è molto presente. Un’immagine ordinaria e feriale. Dio, il Signore, è chiamato e riconosciuto come «Pastore d’Israele» (Sal 80,2), il suo popolo è detto «suo gregge» (cfr. Sal 78,52; 95,7; 100,3), e le pecore sono la sua proprietà.

Dio è il Pastore, ma affinché questa sua qualità sia riconosciuta dai credenti, egli invia al suo gregge dei pastori, scelti «perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore» (Nm 27,17).

Nel quarto vangelo, mentre Gesù si trova a Gerusalemme per celebrare la festa della Dedicazione del tempio, viene descritto uno scontro tra il Maestro stesso e alcuni farisei, dopo la guarigione in giorno di sabato di un uomo cieco dalla nascita (cfr. Gv 9).

Grazie alla fede in Gesù, il cieco giunge a vedere, mentre le guide religiose appaiono cieche, incapaci di riconoscere in Lui la vera missione di Dio. Gesù afferma, dunque, di essere venuto ad aprire un processo che manifesterà la cecità e la luce, la grazia e il peccato, chi resta nell’incredulità e chi invece giunge a contemplare la luce (cfr. Gv 9,40-41).

Tutto questo costituisce una conversione, un’uscita dal sistema religioso giudaico verso la nascita di una comunità che aderisce al magistero di Gesù. Il discorso del Maestro è organizzato attorno alla formulazione di un enigma costruito per immagini.

«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante». Le solenni parole di Gesù mettono in rilievo un’opposizione: vi sono quelli che entrano nel recinto del gregge non attraverso la porta, che è sorvegliata, ma scavalcando il recinto. Questi sono i ladri e i briganti: le pecore non appartengono a loro, ma essi vogliono impossessarsene. Sono ladri perché rubano e sono briganti, che possono entrare nel recinto solo con l’inganno; sono in realtà lupi (cfr. At 20,28-30), falsi pastori che non si curano dei bisogni delle pecore ma pensano solo a se stessi.

Invece «il pastore delle pecore entra attraverso la porta» e il guardiano posto all’ingresso del recinto lo riconosce e gli apre; allora «le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori». Gesù è questo Pastore e il Padre è il guardiano che gli apre. È infatti il Padre che gli ha affidato le pecore (cfr. Gv 17,6-8), che lo ha inviato (cfr. Gv 8,16.42), che gli ha messo tutto nelle mani (cfr. Gv 3,35; 5,22). Dunque il Padre riconosce Gesù come pastore unico del gregge, e così fanno anche le pecore: esse riconoscono la sua voce, la ascoltano ed esultano, sentendosi da Lui chiamate ciascuna con il proprio nome.

Per Dio noi siamo unici, irripetibili, siamo figli. Siamo un pezzo del cuore di Dio. E ci ama così come siamo.

Gesù ha un compito preciso: chiamando le pecore per nome, le fa

«uscire», fa compiere loro un esodo dal recinto ai pascoli aperti, alla libertà. Questa azione è più del far uscire di Mosè dall’Egitto verso la terra promessa, perché è un far uscire dalla schiavitù alla vera libertà, dalla morte alla vita per sempre.

In queste poche parole riportate da Giovanni è delineato tutto il cammino del discepolo, pecora del gregge di Gesù: deve ascoltare la voce del pastore, deve riconoscerla come parola per sé, deve dunque conoscere il pastore e, quindi, seguirlo con fedeltà, in vista di una «vita in abbondanza».

Il pastore si definisce, poi, anche «porta». L’enigma viene così spiegato mediante due affermazioni: «io sono la porta» (Gv 10,7.9) e «io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).

Gesù non dice di essere la porta del recinto, ma la porta delle pecore! Egli non è una porta che fa accedere ad un recinto, ad un’istituzione, ma una porta a servizio delle pecore. Nell’Antico Testamento l’immagine della porta è rivelativa di un passaggio verso il cielo (cfr. Gen 28,17), di un passaggio per accedere alla Presenza del Signore, alla sua Shekinah, (cfr. Is 60,11; Sal 118,19-20); ma qui è Gesù che diventa porta piccola e stretta (cfr. Mt 7,13-14; Lc 13,24), unica via di entrata e di uscita verso Dio, il Padre.

Venuta la pienezza dei tempi, quando «si adora Dio in Spirito e Verità» (cfr. Gv 4,23-24), Gesù è ormai l’unico accesso a Dio, l’unica via per far parte del gregge del Signore: è una porta aperta su uno spazio senza limiti. Negli ultimi discorsi ai suoi discepoli dirà: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

Segue, infine, la richiesta di discernimento su quanti sono venuti prima di Gesù, con la pretesa di essere pastori inviati da Dio: molti sono già venuti, ma erano ladri, briganti, estranei «venuti per rubare e sacrificare» (Gv 10,10).

In ogni tempo appaiono nel mondo e anche nella chiesa pretesi “unti”, falsi inviati, che Dio non ha mandato, uomini e donne che attribuiscono al Signore le loro fantasticherie: non stanno in mezzo al gregge, ma al di sopra; non conoscono le pecore per nome, ma vogliono solo comandarle; non proteggono la pecora debole, ma la abbandonano; non vanno alla ricerca della pecora perduta, ma preferiscono stare con le altre dentro al recinto.

Gesù è, dunque, la porta da attraversare in libertà per andare e venire, per spingersi verso i pascoli della grazia e rientrare al riparo quando sopraggiunge la minaccia. È una porta di salvezza, che dona una salvezza non transitoria, come quella che talvolta gli uomini si danno nella storia.

Di conseguenza, è anche il pastore che desidera per le pecore una cosa sola: «la vita in abbondanza». Per questo le fa uscire in libertà, su cammini di esodo nei quali si aprono orizzonti nuovi e si conoscono nuovi pascoli. Ecco la libertà dei figli di Dio, nella quale c’è anche protezione, perché – dice Gesù – «nessuno può rapire le mie pecore dalla mia mano» (Gv 10,28).

L’altra spiegazione dell’enigma consiste nell’autorivelazione di Gesù quale «pastore bello e buono». «Io sono il pastore bello e buono, che depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). La manifestazione della venuta «pastorale» di Gesù non consiste nelle idee, nella dottrina, nel solo insegnamento, ma nel deporre e spendere la vita per le pecore.

Se Dio era cantato nel salmo quale Pastore del credente al quale nulla manca (cfr. Sal 23,1), Gesù dice di sé che egli stesso dà la sua vita per le pecore. E se nei vangeli sinottici il pastore della parabola era pieno di amore, fino ad andare a cercare la pecora smarrita per riportarla a casa (cfr. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), qui il pastore dà la sua vita sia per la pecora smarrita sia per quella che rimane nel recinto.

Viene così individuato il rapporto tra il pastore e le pecore: una conoscenza reciproca che diventa amore, una conoscenza attraverso la quale il pastore conosce le pecore in profondità e le pecore giungono a riconoscere il pastore come colui che ha cura di loro perché le ama. Esperienza indicibile e autentica, nella quale si ascolta la voce del Cristo, si giunge a discernere la Sua presenza, ma soprattutto ci si sente amati, compresi, perdonati da un amore che è sempre anche e soprattutto misericordia.

La Chiesa è il gregge del Signore, è una realtà viva, un corpo nel quale, se non c’è l’amore gratuito, avviene un triste sfiguramento: una sorta di pastore a gettoni di presenza, un pastore che se vede arrivare il lupo, pensa a salvare se stesso e non le pecore (cfr. Gv 10,12-13). Gesù invece no! La sua missione di pastore è motivata solo dall’amore e il Padre lo ama proprio per questo: perché sa donare la vita per le pecore, per poi riceverla di nuovo da Lui (cfr. Gv 10,14-15.17-18).

La sua missione di dare e spendere la vita è indirizzata a tutti gli uomini, anche a quelli che appartengono ad altri ovili, non solo a quello di Israele. Verrà il giorno in cui anche queste pecore provenienti dalle genti potranno ascoltare la voce di Cristo e così divenire pecore dell’unico gregge (cfr. Gv 10,16).

A tutti voi! Alla comunità che mi ha donato la fede chiedo che mi accompagni con la preghiera perché viva il ministero episcopale in Dio e con Dio accanto, con lo spirito del Buon Pastore che offre la vita per sue pecore.

Possa mettere Dio al centro, quel Dio che chiede tutto e, in cambio, offre la vita in pienezza. Quella vita che sgorga dalla Sua compagnia che mai viene meno, dalla forza umile della croce del Suo Figlio, dalla sicurezza serena dell’amore vittorioso che ci abita.

La fede viene dall’annuncio: ma per annunciare bisogna aver ascoltato, essere diventati intimi della Parola che si predica. E solo la vicinanza con Dio mi permetterà di essere davvero annunciatore del dono di Cristo per la salvezza di tutti.

Pregate perché possa stare accanto ai sacerdoti che il Signore mi ha affidato. In questi giorni ho potuto ammirare la bellezza del presbiterio di Noto: sacerdoti zelanti, presenti nella vita delle loro comunità, preparati e amanti della Chiesa. Il Signore susciti sante vocazioni per il bene e la santità del Suo popolo.

Papa Francesco scrive: «Al gregge serve tanto questa quotidianità, questa presenza continua del suo pastore per non trovarsi sballottato qua e là, in preda a onde che spesso sono violente a causa delle quali cerca altrove le proprie compensazioni. Il pastore deve saper offrire riparo al suo gregge, rispetto al quale deve occupare posizioni ben precise: stare davanti, in mezzo e dietro. L’ unico posto dove non deve stare, pena venir meno al suo stesso ministero, è sopra il suo popolo. Il vescovo deve stare un passo avanti, perché è come il profeta che scruta l’orizzonte per vedere dove si sta andando. Deve stare un passo indietro, come il custode che guarda le spalle del proprio gregge. E deve stare in mezzo, perché lì sente e prende a sua volta l’odore delle pecore. La vita del vescovo deve essere coinvolta con la vita del gregge».

Come pastore sappia leggere la mia storia e quella della comunità cristiana di Noto; fare discernimento in umiltà sempre con il mio clero e la mia gente e accettare buoni consigli. Al servizio del popolo di Dio possa pregare e operare perché tutti i cristiani siano una cosa sola. Possa vivere al servizio di quel mistero di comunione che è la Chiesa Corpo vivo, popolo in cammino nella storia e, in Cristo e nello Spirito, già oltre la storia. Faccio mio il «sogno» di Dio: il Suo disegno di riconciliare e armonizzare in Cristo tutto e tutti.

Possa non dimenticami del mio popolo, non dimenticarmi delle mie radici! Sempre vicino al popolo di Dio, perché da lì io provengo. Da questa terra benedetta, da questo popolo santo che vive a Delia.

Sono stato generato alla fede, qui, in questo Tempio e ricorderò ciò che voi mi avete sempre donato: qui i miei genitori hanno celebrato le loro nozze e l’anello che porto è il segno del loro amore, qui sono diventato cristiano, per la prima volta ho ricevuto il Suo Corpo, sono stato ordinato diacono, ho baciato l’altare per la prima messa, sono state celebrate le esequie dei miei genitori e dei miei familiari e ora, come Successore degli apostoli, chiedo la benedizione del mio popolo per essere servo di tutti, ministro di comunione, santità e miserciordia!