«LA TRASGRESSIONE DI DIO»

Omelia in occasione XXXII Giornata Mondiale dell’ammalato - Basilica Cattedrale
11-02-2024

Carissimi fratelli e sorelle

oggi celebriamo la VI domenica del Tempo ordinario ma il cuore ci porta alla festa della Madonna di Lourdes e alla XXXII Giornata Mondiale dell’ammalato.

Il mio particolare e affettuoso saluto, unito ai sentimenti di gratitudine, va all’UNITALSI e agli Uffici diocesani per la pastorale della salute, della pastorale delle persone con disabilità, alla Misericordia, all’Avo, all’Avis, ai Superabili, alla Papa Giovanni XXIII e ai Piccoli Fratelli. Un caro saluto a Don Nunzio Di Stefano, Cappellano della Grotta di Lourdes e a Don Matteo Buggea.  Oggi benediciamo la vostra esperienza caritativa verso le persone con disabilità.

Come ogni anno, per questa giornata, il nostro Papa ha donato alla Chiesa un messaggio dal titolo: «Non è bene che l’uomo sia solo».
Curare il malato curando le relazioni». Curare l’ammalato è un impegno a cui Gesù ci ha educato, soprattutto nel venire incontro alle sue necessità. Scrive Papa Francesco nel messaggio: «Occorre tuttavia sottolineare che anche nei Paesi che godono della pace e di maggiori risorse, il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono».

«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato».

Nel ricevere il miracolo, l’ex lebbroso poteva ritornare alla normalità.
Ricordo alcune testimonianze molto forti di alcuni che hanno vissuto con i lebbrosi e aiutato gli uomini del tempo a riscoprire il dono delle relazioni con gli ammalati di lebbra e non solo.

Pensiamo a San Damiano de Veuster, vissuto nell’isola di Molokai dove venivano letteralmente buttati i lebbrosi, a santa Madre Teresa di Calcutta. Più volte rischiò la vita, solo perché li aiutava. Come anche Raoul Follerau o il dottore Albert Schweitzer che hanno dedicato tutta la loro vita al servizio dei lebbrosi.

La malattia della lebbra era considerata un castigo divino, ma, in Gesù, il lebbroso può vedere un altro volto di Dio: non il Dio che castiga, ma il Padre della compassione e dell’amore, che ci libera dal peccato e mai ci esclude dalla sua misericordia. Così quell’uomo può uscire dall’isolamento, perché in Gesù trova Dio che condivide il suo dolore. L’atteggiamento di Gesù lo attira, lo spinge a uscire da sé stesso e ad affidare a Lui la sua storia dolorosa.

La lebbra non era solo una malattia del corpo, ma anche un taglio netto delle relazioni con gli altri. Il lebbroso non si poteva avvicinare alla città e soprattutto avere la lebbra era considerato un peccato grave. Si legge nella prima lettura: «Sarà impuro finché durerà in lui il male e, impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

I lebbrosi erano esclusi da ogni relazione umana, sociale e religiosa: per esempio, non potevano entrare in sinagoga e nel tempio. Gesù, invece, si lascia avvicinare da quell’uomo, si commuove, addirittura stende la mano e lo tocca.

Così, Egli realizza la Buona Notizia che annuncia: Dio si è fatto vicino alla nostra vita, ha compassione per le sorti dell’umanità ferita e viene ad abbattere ogni barriera che ci impedisce di vivere la relazione con Lui, con gli altri e con noi stessi. Si è fatto vicino… il Vangelo dice che Gesù vedendo il lebbroso, ne ebbe compassione.

Mentre la Legge proibiva di toccare i lebbrosi, Egli si commuove, stende la mano e lo tocca per guarirlo. Qualcuno direbbe: ha peccato, ha fatto quello che la legge vieta, è un trasgressore. È vero, è un trasgressore.  Non si limita alle parole, ma lo tocca. E toccare con amore significa stabilire una relazione, entrare in comunione, coinvolgersi nella vita dell’altro fino a condividerne anche le ferite. Con questo gesto, Gesù mostra che Dio che non è indifferente, non si tiene a «distanza di sicurezza»; anzi, si avvicina con compassione e tocca la nostra vita per risanarla con tenerezza. È lo stile di Dio: e il cuore di Dio non ha confini.

A ciascuno di noi può capitare di sperimentare fallimenti, sofferenze, egoismi che ci chiudono a Dio e agli altri, perché il peccato ci chiude in noi stessi, per vergogna, per umiliazioni, ma Dio vuole aprire il cuore. Dinanzi a tutto questo, Gesù ci annuncia che Dio non è un’idea o una dottrina astratta, ma Dio è Colui che si “contamina” con la nostra umanità ferita e non ha paura di venire a contatto con le nostre piaghe. E San Paolo: «si è fatto peccato» (cfr. 2 Cor 5,21). Lui che non è peccatore, che non può peccare, si è fatto peccato. Guarda come si è contaminato Dio per avvicinarsi a noi, per avere compassione e per far capire la sua tenerezza. Quello di Dio è un amore che fa andare oltre le convenzioni, che fa superare i pregiudizi e la paura di mescolarci con la vita dell’altro.

Scriveva Papa Francesco nel 2016: «Nella sollecitudine di Maria si rispecchia la tenerezza di Dio. E quella stessa tenerezza si fa presente nella vita di tante persone che si trovano accanto ai malati e sanno coglierne i bisogni, anche quelli più impercettibili, perché guardano con occhi pieni di amore. Quante volte una mamma al capezzale del figlio malato, o un figlio che si prende cura del genitore anziano, o un nipote che sta vicino al nonno o alla nonna, mette la sua invocazione nelle mani della Madonna!» Mettiamo tutto nel Cuore di Maria Santissima nostra Madre…e affidiamo a Lei le preghiere e le sofferenze dei nostri fratelli ammalati.